giovedì 19 novembre 2009

No Taxation Without Representation

Diego Zunino

Era appena trascorso il mio primo giorno di Università da studente del terzo anno, il pretenzioso Euro City -agglomerato di vagoni più o meno riportati alla decenza da almeno trent'anni- diretto a Nizza stava ormai lasciando la Stazione Centrale di Milano.

Vecchi scompartimenti, sedili polverosi: sovraffollatissima (alquanto pretenziosa) prima classe che sfruttava gli ultimi sgoccioli d'estate. È stato in questo ambiente squisitamente naif che ho iniziato a ripensare in un'altra prospettiva alla legge elettorale.

L'elegante signora di mezza età dinanzi a me chiede cordialmente indicazioni per le Cinque Terre, quali coincidenze ed altre amenità simili; dal suo accento ispanico mi rendo conto che è straniera: dell'Uruguay per la precisione, mi racconta di tutto sulla sua vita da quando ha lasciato l'Italia alla volta di Montevideo, al fratello che mai ha voluto sapere più nulla del paese natio fino a un bollettino tragicomico sui morti di influenza A nel suo paesino di 700 anime.

Tra le tante chiacchiere per ammazzare una sgradevole ora di tempo mi è rimasta impressa una cosa che mi ha detto con aria quasi ironica "Dell'Italia mi arrivano gli avvisi che debbo andare a votare, ma io non so nulla del vostro Paese, né dei partiti né delle persone. Non sono mai andata a votare, né tanto meno mio fratello che, si figuri, l'avete pure fatto Console Onorario. Che ci vuole fare, non mi sembra nemmeno giusto: io da voi mica pago le tasse, perché devo potere votare?".

Ecco, mi è tornata in mente la protesta dei coloni americani: no taxation without representation. Chi ha la doppia cittadinanza e magari in Italia non c'è mai stato, perché deve votare?
A mio parere il voto degli “Italiani all'estero” suona come il volere malinconicamente imitare chi possiede ancora residui di colonie (es. I territori d'Oltremare in Francia) che fanno parte della nazione, evocando invece forse residui di emigranti dei tempi che furono.

La legge che è stata oggi proposta prevede invece di permettere il voto financo alle elezioni comunali ai cittadini extracomunitari immigrati e residenti da più di cinque anni, inoltre citando il Corriere: dà la possibilità agli immigrati di essere eletti consiglieri e di fare parte della giunta con l'esclusione delle cariche di vicesindaco e, ovviamente (?), di sindaco.

La proposta di legge è, altrettanto ovviamente per il buon Calderoli, “un attentato alla democrazia”, mentre per l'(ex) compagno Cicchitto “inaccettabile […] senza che la presidenza del gruppo sia stata interpellata […] senza che rientri negli impegni di governo”.

Ho imparato oggi una memorabile lezione di diritto costituzionale, in Italia:

· Immigrati residenti in Italia da cinque o più anni regolarmente attentano alla democrazia se pagando tasse dirette (il lavoro prestato) e indirette (l'IVA), con i figli che parlano un italiano migliore di tanti italiani perché hanno studiato nelle nostre scuole dove hanno pagato ivi le tasse di iscrizione possono volere ardire di scegliersi un consigliere comunale, piuttosto che non votare rimanendo vittima di scelte che li penalizzano magari in quanto ceto socialmente più debole.
· I nostri compatrioti che parlano con accento ispanico o americano, non pagano nessuna tassa -e certo, le rimesse non sono più quelle di una volta- ma possono scegliersi ben dodici deputati e sei senatori. (http://bit.ly/8aVjOh)
· I Parlamentari hanno il divieto di mandato imperativo nei confronti di chi li ha eletti ma non verso chi li ha nominati, o è stato nominato insieme a loro ma meglio.

Suggerisco ai tanti immigrati lesi da chi li accusa, loro, di attentato alla democrazia che in caso di loro inclusione in una lista civica, invece di chiamarla con i soliti nomi propri del civismo si fregino di un suggestivo: “Albissola (o comune interessato) Tea Party” .

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