martedì 27 ottobre 2009

Cabaret


D
iego Zunino

Ricordi del liceo, quando si parlava degli antichi Romani, vi era una peculiarità: l'uomo pubblico doveva essere integerrimo non solo nell'attività politica che conduceva ma pure nella vita privata.

Roma 2009 d.C.: il Presidente della Regione Lazio è costretto all'autosospensione perché ha avuto rapporti con transessuali e, ricattato, è stato costretto prima a pagare poi ad ammettere pubblicamente. Le fosche tinte della vicenda non permettono ad oggi una precisa ricognizione dei fatti. Prima di lui Sircana viene criticatissimo per avere abbordato un viados.

Contestualmente un Presidente del Consiglio è stato perseguitato politicamente per essersi concesso lascivi festini nelle sue residenze private, quando contestualmente si sarebbe potuto fare una piena opposizione a ben altri interventi di indirizzo politico dell'esecutivo.

Un giudice che pronunzia una sentenza contro il suddetto Presidente viene seguito da una telecamera che maldestramente cita come stranezze il fumare le sigarette “quasi uno spot all'incontrario” (solo lui fuma.... Quante stranezze che ci hai somministrato caro Faber...) e portare calzini turchesi e mocassini bianchi.

A Parigi la testa di un ministro della Repubblica Francese, Frèderic Mitterrand, è chiesta dagli ex compagni di partito dello zio per le ambigue confessioni in un'autobiografia e la strenua difesa di Roman Polanski e dei suoi vizi privati ma fuorilegge.

Gli amici di “Azione Riformista” a Savona, avevano proposto una formazione civica di spicco, dove, ispirati al grande Montanelli “le competenze sono riconosciute ed il merito premiato”: si trattava della lista “Il Bordello”. Mai nome più azzeccato in questo periodo: un movimento transpartitico transnazionale transfrontaliero che bene dipinge la situazione politica attuale.

È forse questo il dibattito politico cui ogni giorno un privato cittadino deve essere sottoposto? Il solo metro di giudizio dell'operato pubblico è forse pensare alla figura in oggetto come “padre dei vostri figli?” (cit.)

Non dico che non sia importante la vita privata di un cittadino quando assume una carica pubblica: è una responsabilità enorme la rappresentanza di un ente, pur tuttavia non si può soverchiare il rapporto ponendo la condotta in atti personalissimi quali le frequentazioni sotto le lenzuola come condizione di esistenza di un mandato politico.

Le reazioni sono state differenti nei casi primari: Silvio ha liquidato tutto e tutti, ha proseguito il suo mandato; il buon Marrazzo invece è stato costretto all'imbarazzante autosospensione verso le dimissioni. Purtroppo il minimo comune multiplo di questi affaires sono stati la preventiva negazione di quanto accaduto bollando come menzogne, frottole etc. tutto il materiale a loro carico, per poi trovarsi costretti a negare il negato... affondando nell'imbarazzo dei fatti.

La connivenza risiede inoltre in una classe di media incapace di fare muro contro questi famigerati, abusati, irritanti dossier: l'economia for dummies ci invita a ragionare sul prezzo di un bene non domandato. Questo è zero, al netto dei costi fissi. Dunque mi viene da pensare che se nessuno volesse comprare questi dossier, allora i “produttori” (ovvero i ricattatori, i reporter freelance in odore di soldi facili) dovrebbero uscire dal mercato, non ritenendo più profittevole proseguire in quest'attività dalla dubbia morale.

Non dico in questo modo che l'attività d'informazione sia violata in quanto ben poco mi interessa, e così credo a non pochi altri, di chi vada a letto con chi. Men che meno se ciò non altera in alcun modo gli equilibri di un paese o di un territorio: chi riteneva infatti che fare dieci domande sulle frequentazioni a casa propria del premier fosse un modo di fare opposizione, forse l'unico in grado di arginare la deriva autoritaria si è arreso al tempo, il quale ha fatto passare in secondo piano la vicenda lasciando spazio alle sardoniche battute reperibili in rete, ai giuochi di parole sull'escort e sull'utilizzatore finale: insomma un grande repertorio di cabaret ma non certo opposizione.

Non voglio cedere alla lusinghiera tentazione di un'ipotesi giustizialista che vede ogni rinvio a giudizio conseguire ciecamente le dimissioni dell'inquisito, né voglio affermare che la magistratura governi il paese: pur tuttavia pare opportuno restituire alle indagini un certo grado di riservatezza, “la gente deve sapere che...” no, la gente non deve sapere se chi mi ricatta è in possesso di foto con travestiti o è il mio alter ego travestito in un magistrale fotomontaggio, altrimenti si rischia che più comodamente per un percettore di redditi così alti in tempi di crisi sia più facile cedere al ricatto piuttosto che affidare le indagini alla Giustizia.

Ridiamo danzando allegramente in questa “sardana infernale” (cit.) di veleni, ignari di come danzare in una “corte di nani e ballerine” (grazie infinite al compagno Formica per questo squisito motto) possa svilirci molto, farci sentire leggieri e soavi ma terrorizzati, tremendamente, da una telecamera dietro l'angolo.

Da piccolo temevo di fare politica perché avevo paura delle BR, ora ho paura di un dossier, soprattutto se di “mattino 5”.

domenica 25 ottobre 2009

L'Impegno Politico: Perdita Di Tempo O Sincera Battaglia D'Idee?

Alessio Mazzucco

Discutevo con un amico sulla questione “impegnarsi attivamente in politica”. Lui sottolineava l’inutilità e la dispendiosità del tempo che l’attività richiede senza dar certezze di giungere a qualche meta e mettere in atto le idee di partenza; tutto questo nonostante il disgusto di fronte al palese decadimento di ideali e istituzioni del nostro Paese.

Personalmente mi sento impegnato. E non solo con il giornale (il cui impegno risiede nel creare la possibilità di comunicare e discutere le proprie opinioni), ma in quella che possiamo chiamare politica attiva in un gruppo apartitico milanese. Questa attività non influenzerà di certo Il Caffè, ma ha comunque un peso importantissimo nella mia vita.

Cosa significa impegnarsi in politica? Voler proporre il nuovo e trovare soluzioni laddove i problemi più diversi ne richiedono. Null’altro. Il resto è apparenza; il partito, il simbolo, lo slogan o l’ala politica d’appartenenza altro non è che un costrutto artificiale per semplificare l’operato, per fornire una base d’appoggio o, più spesso, per dare a chi è povero di idee la possibilità di scimmiottare il mondo politico “altolocato”.

La politica è bella. E non mi serviva di certo Tornatore per dirlo. E’ bella perché permette la realizzazione di idee, cause ed ideali nel mondo in cui siamo immersi. Non è un esercizio di stile, né di retorica; non è autocompiacimento né ambizione d’un’occupazione tristemente nota in Italia per gli eccessi di ori e vizi. E’ spinta irrazionale a lasciare un segno, un’impronta nel mondo che affideremo a chi ci succederà.

Le sfide dei giorni nostri son molte. Le scelte che dobbiamo prendere ci condurranno su strade differenti che, una volta imboccate, non potranno essere cambiate. Una di queste scelte è rimanere attivi o passivi dinnanzi al fluire del tempo e degli eventi, è criticare inerti seduti in un salotto o spavaldi in mezzo alle persone, è inneggiare in silenzio al proprio credo o esporsi alle idee e alle pietre di chi è bravo a tirarle senza pensare ai motivi per farlo. A volte basta pensare, elaborare, riflettere e comunicare con gli altri perché sui muri della nostra società rimanga una firma, seppur piccola, di certo indelebile, delle nostre idee. Ho amici che ogni giorno sono in giro a dar volantini per pubblicizzare le proprie iniziative, altri che scrivono sul proprio blog, altri ancora che, nelle sere più improbabili, rinunciano a uscite divertenti e rilassanti per trovarsi a immaginare ed elaborare un futuro migliore.

E’ una perdita di tempo? Non so. Di certo, quando il tempo nostro sarà trascorso e i nostri nomi saranno avvizziti nella memoria collettiva, probabilmente verrà spesso da chiedersi cosa sarebbe stata la nostra vita se in gioventù avessimo dato un contributo, seppur minimo, agli ingranaggi della Storia. Le difficoltà sono molte, i pericoli di dolori e frustrazioni troppi, ma davanti all’ignoto e al rischio mi sovvengono alla mente quei versi de La Canzone di Orlando che così recitano: “Sia maledetto il cuore che s’abbatte!/Al nostro posto noi rimarremo in campo/da noi verranno i colpi e il battagliare!”.

sabato 24 ottobre 2009

Una Firma per Radio Radicale


di Francesco Salonia

Non trasmettono l’ultima hit dei Black Eyed Peas, non sono simpatici come Linus o Platinette. Se la domenica siete in viaggio e non potere seguire il calcio, non contate di trovarci una telecronaca.
A volte si sente male, oratori che trattano rudemente il microfono, quando parla Pannella poi, buona fortuna. Ma l’importante con lui è carpire il senso generale d’altronde.
Se volete sapere cosa succede in Parlamento ci sono due opzioni: andare lì o ascoltarLa.
Se siete interessati agli eventi di maggior rilevanza politica del paese, congressi, tavole rotonde o semplici dichiarazioni, avete le stesse due opzioni: trovarvi dove l’evento si svolgerà o ascoltarLa.
Potete essere di quelli che fanno gli attivisti, che nella politica ci stanno dentro, ad ogni livello e la vedono come una missione, oppure di quelli che la politica, o per pigrizia (come me) o per povertà di spirito, come pure per mancanza di opportunità, preferiscono seguirla in maniera più intima e personale, interpretandola come un esercizio dell’intelletto. Non importa a quale categoria apparteniate, perché Radio Radicale non fa differenze, non opera una discriminazione di pubblico. Il suo ascoltatore può essere chiunque abbia una sana passione per la vicenda politica nazionale ed internazionale.
Radio Radicale fa Informazione, fa Giornalismo, Lei (perché io me la immagino come una signora non più così giovane, ma sempre bella e attraente, non certo come una “cosa”) diffonde sapere e se siete anche voi convinti della profonda verità che soggiace al luogo comune per cui sapere e potere sarebbero entità inscindibili, allora capirete bene di quale prezioso bene questo mezzo d’informazione sta facendo dono a tutti coloro che hanno il buon gusto di ascoltarla, da anni.
Non a caso uso le maiuscole, perché fare informazione e giornalismo sono due attività che non hanno bisogno di ricevere il permesso da nessuno per essere svolte. Vietare o intralciare l’informazione può solo essere lo scopo irraggiungibile di un folle. La morte dell’informazione non può avvenire per un colpo di spada, come nemmeno per un decreto legge o un monopolio.
Le nostre grandi testate si lamentano di non avere la libertà di informare e i nostri concittadini scendono in piazza per reclamarla. Tutte ciance, tutte scuse, tutte mistificazioni che servono a mascherare ciò che nessuno vuole ammettere a se stesso. L’informazione si può fare, ma non si vuole fare. Ci si può informare, ma non si ha la voglia di farlo, l’intenzione.
Perché la verità è che informarsi significa sudare, rimboccarsi le maniche e andare alla ricerca di ciò che ci interessa, significa sforzarsi di ascoltare di comprendere e di farlo in maniera profonda, significa sacrificare del tempo, molto tempo, che potremmo dedicare ad altro, che vorremmo dedicare ad altro, perché in fin dei conti a noi, di essere informati, di essere così profondamente ed esattamente informati, non interessa poi molto.
L’informazione sfornata calda e strofinata sotto i nostri nasi, esatta, completa, facile ed accessibile, così attraente da risultare quasi pornografica, non esiste. L’informazione è un’altra cosa e non è per gente che demorde presto.
Radio Radicale incarna questo spirito. E se lei muore, questa visione così cruda eppure così fragrante morirà con lei e rimarranno solo le lagne, i piagnistei e le fastidiose giornate in piazza.
Visitate il sito www.radioradicale.it e firmate anche voi la petizione che serve a rinnovare l’accordo per i finanziamenti di stato.

mercoledì 21 ottobre 2009

La Parola All'Economia

Cristina Saluta

La crisi economico-finanziaria si è fatta spazio prepotentemente tra le righe dei giornali, conquistando le prime pagine e straripando dagli editoriali e dalle rubriche speciali entro cui stava confinata.

Innegabile è il merito della crisi nel riportare al centro del dibattito non solo politico, ma anche culturale i grandi temi dell’economia.

L’economia ha suscitato improvvisamente grande interesse, riscuotendo successo sia tra i giovani sia tra gli intellettuali, e rilevando il suo lato di “scienza umana”, sensibile alle problematiche sociali, dedita alla comprensione dei bisogni primari e delle preferenze del singolo uomo, senza trascurare, al contempo, l’aspetto aggregato delle sue azioni e le conseguenze delle sue scelte sulla popolazione nel suo complesso.

Basti pensare che l’associazione “Il circolo dei lettori” di Torino da quest’anno ha dedicato un intero ciclo di conferenze all’economia, scegliendo di dare voce negli ambienti da “salotto letterario” ad un tema spesso considerato tecnico e sterile.

Il ciclo si è aperto con un incontro dal titolo “Il Mercato”, a cui hanno partecipato da una parte il professor Bertola , docente di Economia pubblica all’Università di Torino e convinto sostenitore del libero mercato, e dall’altra il giornalista di Repubblica Roberto Petrini, autore del libro “ Processo agli economisti”, che, come si intuisce, ha difeso una posizione più critica nei confronti del mercato, sollevando questioni e sostenendo che siano necessari correttivi e interventi pubblici più consistenti per evitare che crisi gravi come quella che stiamo vivendo possano ripetersi in futuro.

Nel dibattito si sono intravisti, ancora una volta, i contorni della “Mano Invisibile” di Smith, secondo cui gli individui sono guidati dall’egoismo e la massimizzazione del benessere collettivo può essere raggiunta solo tramite il perseguimento del proprio interesse individuale, in contrasto con l’idea che il mercato in sé sia causa delle proprie inefficienze e che servano maggiori regole e, soprattutto controlli, per fare in modo che opportunismi, monopoli e asimmetrie informative siano attenuati.

Non a caso, Petrini fa notare che fu proprio un problema di asimmetria informativa a scatenare la crisi finanziaria del 2007 in tutta la sua dirompenza.

Gli effetti più gravi della crisi derivavano, infatti, dall’ignoranza degli acquirenti della natura dei titoli che possedevano. In questo modo si sparsero per tutto il mondo, in ossequio al principio, questa volta nefasto, di diversificazione del rischio, “derivati” di cui era impossibile non solo constatare la bontà ma, soprattutto, risalire all’origine.

Va aggiunto che la crisi finanziaria non ha messo in luce soltanto la fragilità del mercato ma anche quella delle istituzioni chiamate a proteggerlo e che si sono rilevate del tutto inadeguate al loro compito, tanto da suscitare forti perplessità sulla loro efficacia. Ma allora a favore di chi propendere? Fu giusto lasciare ai mercati tutta questa libertà oppure si sarebbe dovuti intervenire con più rigore?

È difficile giungere a una conclusione finale. Entrambe le parti sembrano avere buone ragioni ma certamente anche gravi responsabilità e di certo l’antidoto alla crisi non è ancora stato trovato.
Potenziare il ruolo dello Stato oppure lasciare al mercato il compito di sbrigarsela da solo? Semplice mancanza di buon senso o insufficienza di regole, rischi insiti nel mercato o coincidenze possibili ma sfortunate?

Questi sono solo alcuni dei quesiti che restano aperti e nuove strade dell’economia sono ancora completamente da scoprire e da percorrere.

Tuttavia, credo che un indizio per chi cerca delle risposte venga dalla scelta dei due premi nobel per l’economia di quest’ anno, Elinor Ostrom e Oliver Williamson, la cui nomina è stata senz’altro molto significativa.

Si tratta di due economisti dalla forte estrazione sociale, che hanno dedicato i loro studi a dimostrare che non sempre i beni pubblici sono gestiti in modo inefficace, ma che a volte forme di cooperazione spontanea, ad esempio sorte con l’obiettivo di salvaguardare il patrimonio forestale piuttosto che la qualità dell’aria di un certo territorio, possono sostituirsi validamente alle burocrazie e persino al mercato stesso.

A prova che non sempre l’egoismo è la guida all’agire umano, a dimostrazione che non sempre bisogna lasciar fare tutto al mercato.

Credo che l’Accademia di Stoccolma abbia voluto lanciare un invito, anzi forse un appello, a fin che non ci si fermi agli ormai consolidati schemi neo-classici, ma si continuino a cercare nuove strade, a crescere e a rinnovarsi con coraggio, prendendo atto dei propri limiti e vagliando tutte le alternative, anche le più inaspettate, senza presunzione ma con l’entusiasmo di chi superata la “paura” si presta a varcare una nuova “frontiera”.

Gold Man At Goldman, Quando Il Nome E' Una Profezia

Filip Stefanovic

Nel Regno Unito è in corso un acceso dibattito del quale da noi, qui in provincia, giunge appena qualche mormorio stentato. Oggetto della diatriba è l’annuncio che la banca d’investimenti Goldman Sachs, che si fa pernacchie della crisi sfornando bilanci quadrimestrali in netto avanzo uno dietro l’altro – il terzo e ultimo a oggi redatto mostra profitti pari a 3 mld/$ (2,11 mld/€), attesi in crescita per l’ultimo quarto dell’anno in corso – offrirà ai suoi 30.700 dipendenti, proiettando i dati al 31 dicembre, tra retribuzioni, bonus e benefit vari, la bellezza totale di 24 mld/$ (16 mld/€). Detto in altre parole, più di 520.000 € a testa, non così equamente distribuiti: ad alcuni top trader spetteranno premi da 27 milioni di €, ad altri 14, 7 e così via. Se così sarà, vorrà dire che nel 2009, con una crisi che fiduciosamente si ritiene già alle spalle ma dalla quale non si è propriamente usciti e, in verità, è difficile prevedere davvero quando, il gruppo americano oltrepasserà la soglia record registrata nel 2007 di 21 mld/$.

La stessa Goldman Sachs che meno di un anno fa ricevette aiuti statali per 10 miliardi di $, prontamente restituiti a luglio 2009, con una solerzia che in molti hanno un poco ingenuamente letto come dimostrazione di buona volontà, altri, più malignamente, sotto l’annuncio della presidenza Obama che i gruppi che hanno usufruito del piano di sostegno Tarp avrebbero avuto tetti di compenso per manager e dirigenti fissati dallo stato. Insomma, come diceva Giulio Andreotti, “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.

A mio vedere, cifre di queste dimensioni spingono un lettore interessato a porsi, a ritroso, una domanda fondamentale: cos’è Goldman Sachs? Ventiquattro miliardi di dollari sono forse troppi per disinnescare la domanda con un semplice “banca”.

GS è fondamentalmente una holding finanziaria, vigilata ora dalla Federal Reserve, che trae per la maggior parte profitti da operazioni su ogni sorta di mercato finanziario, scommettendo sul valore futuro dei più disparati asset: materie prime, tassi d’interesse, titoli azionari, indici, valute, in un far west nel quale i cowboy tra più famosi sono belli che stecchiti (Bear Stearns, Merrill Lynch, Lehman Brothers), e dove l’ultimo gringo rimasto, Goldman Sachs appunto, è ora padrone (o quasi) dell’intera prateria. Orbene, se però il nostro pistolero è il solo capace di centrare il bersaglio, sarà che ha la mano più ferma del west oppure è il bersaglio a materializzarsi dove lui spara? Detto meglio: se Goldman Sachs opera su mercati incerti e invisibili, scommettendo su valori futuri illeggibili ex ante, dove quindi tutto si gioca sulla quantità, qualità e attendibilità dell’informazione e di chi crea tale informazione, oltre che dal comportamento degli altri operatori (i defunti e i malaticci), quanto pesano le analisi stesse dei partner della Goldman sui risultati? Si tratta di stabilire, in breve, se non ci si trovi di fronte alle classiche profezie autorealizzanti, e quanto spazio sia quindi ancora concesso più che al rischio al vero e proprio azzardo. Certo resta che il banco vince sempre, se consideriamo il fatto che i vari compensi rappresentano quasi il 50% dei ricavi netti. Dato che la dice lunga sulla scala di valori e urgenze che guidano le scelte dei nostri bravi traders, senz’altro sempiterni innamorati della massimizzazione dei profitti, talebani neoclassici che si nascondono dietro il dogma mai dimostrato della perfetta razionalità dei mercati e, perché no, dei mercanti. Il chiasso alzato da chi dal gioco d’azzardo non è mai stato attratto, e perciò resta immune al fascino del tavolo verde della borsa, meno allo scandalo di premi milionari, è salito forse un po’ troppo: si è cercato di correre ai ripari promettendo che la Goldman devolverà forse più di un miliardo di dollari in beneficenza, il classico piatto di lenticchie per godersi il grosso della torta senza occhiate velenose dalla finestra.

Insomma, che etica e finanza non vadano a braccetto non mi pare una scoperta recente né poco condivisa, il vero nodo da sciogliere è quello di capire se ciò sia prima di tutto corretto e, ora come non mai, sicuro per i futuri sviluppi dell’economia globale, oppure se ci sia bisogna di regolamenti e controlli più rigidi e ricercati, senza per questo alzare lo spauracchio di un paventato spettro statalista. Qualsiasi marcato intervento di regolazione dovrà però essere adottato a livello mondiale, che sia l’imposizione di tetti massimi a commissioni e retribuzioni, oppure al rapporto d’indebitamento tra asset totale e capitale di rischio. Lo sforzo risulterebbe altrimenti non solo vano e controproducente, ma difficilmente realizzabile. Un argomento che sarebbe interessante portare al tavolo del G20, e verificare se sia troppo pretenzioso credere si possa cambiare qualcosa con la stessa rapidità con la quale si è saputo rispondere alla crisi nell’autunno dell’anno passato. A chi invece contro ogni evidenza storica crede ancora, o torna a farlo, negli ingranaggi perfetti di un mercato a orologeria, mi sento solo d’augurare un’orchestra decente e un concerto indimenticabile, mentre il Titanic corre verso il prossimo iceberg.

domenica 18 ottobre 2009

Una Rosa Bianca

Cristina Saluta

Il 9/09/09 in tv passavano le immagini di una rosa che da nera cambia colore, si schiarisce e diventa bianca. Questo è il simbolo che i mass-media avevano scelto per la giornata della “Violenza alla donna”, lanciando l’invito rivolto a tutte le donne di indossare qualcosa di bianco. Io credo che una giornata dedicata a questo tema abbia ancora oggi un significato tristemente profondo e sia un’occasione importante per mettere in guardia le donne, per ricordare a tutti, quanta strada debba ancora farsi per raggiungere la piena parità dei sessi.

So bene che la percezione generale è che il problema sia ormai da tempo superato e risolto,
eppure è di poche settimane fa la storia di Hussein, la giornalista sudanese che ha rischiato 40 frustate per avere commesso il grave reato di indossare un paio di pantaloni in luogo pubblico.
Poco risalto è stato dato al suo coraggioso rifiuto di pagare l’ammenda comminata, accettando di scontare un mese di carcere, pur di non piegarsi alla legge che l’aveva discriminata.

Ma a farmi preoccupare non sono tanto le notizie che provengono dal Medio-Oriente, dove è risaputo che la battaglia per l’emancipazione della donna è ancora tutta da giocare. Un processo in via d’ evoluzione che ogni giorno si scontra contro l’interpretazione letterale della religione e il potere consolidato. Segnali allarmanti provengono dallo stesso mondo occidentale, da “casa nostra”. A volte sono palesi differenze salariali, mobbing, stalking; altre volte sono subliminali e noi nemmeno ce ne accorgiamo.

Se si scattasse una foto al Parlamento Italiano ci si renderebbe facilmente conto della difficoltà per una donna di fare il suo ingresso nella politica, di quanto lo Stato pensi da “uomo”.

Un esempio viene dagli Stati Uniti, e per precisione, dal cuore della parte più democratica e tollerante degli Usa, il Partito Democratico. Nel corso delle ultime primarie si sono fronteggiati, in una delle competizioni elettorali più combattive e avvincenti , Barack Obama e Hillary Clinton. Entrambi campioni di due fette di popolazione che in modi diversi hanno vissuto l’esperienza della discriminazione nel passato, e che in misura certamente molto minore, la vivono ancora nel presente.

Durante la campagna elettorale, nessuno dei Repubblicani ha scelto di tirare in gioco il razzismo come punto di forza nella sua competizione contro Barack Obhama, e la sfida si è svolta sul piano politico, delle idee e dei valori, anche se, come in ogni campagna che si rispetti, gossip e colpi bassi non sono mancati e il fair play è rimasto un miraggio.

Il razzismo non è più accettato negli Usa e, di certo, una battuta sul colore della pelle del candidato avrebbe sollevato scandalo, imbarazzo e, soprattutto, fatto perdere molti punti percentuali nei sondaggi. Nessuno si sarebbe permesso, nessuno se lo sarebbe neppure sognato, a meno che non fosse stato determinato a commettere uno dei più gravi errori strategicamente possibili.

Altrettanto non si può dire della campagna contro Hillary, basata, invece, su attacchi sessisti e volgari, che la rappresentavano come la casalinga della Casa Bianca, fragile donna comandante in capo dell’esercito. Concetto inaccettabile per un popolo che fa delle armi la sua bandiera della libertà.

Tutto ciò mi fa riflettere.
Forse sono stati fatti più progressi nella lotta contro il razzismo che non per la parità dei sessi.
Certamente c’è ancora molto da fare.
Ma le conquiste ottenute in altri campi dei diritti umani, come la lotta al razzismo, che il Presidente Obama incarna alla perfezione, e la passione e la forza con cui Hillary Clinton ha condotto la sua battaglia mi fa pensare, sperare, che molti passi avanti verrano compiuti nei prossimi anni.

venerdì 16 ottobre 2009

Riccardo, ma che ca**o hai combinato?


di Francesco Salonia.
Sono sempre stato intellettualmente sedotto dall’idea che, nei grandi momenti di svolta, lo Spirito della Storia si incarni in un singolo individuo e che attraverso di lui strappi alle indistinte masse il compito di plasmare il divenire. Trovo in questa idea il senso dell’eroico che ci affascina senza scampo. Vedo nascosto in questa idea il segreto desiderio che ognuno nutre di poter influire come singolo e non perdersi nelle pieghe senza volto della storia. Che poi la previsione esatta dei risvolti che questa influenza potrà avere nell’immediato o lontano futuro ci sfugga, non ha importanza. Ho parlato di eroi, non di profeti.
Stasera sono venuto a conoscenza di una vicenda singolare e suppongo ai più sconosciuta, che istintivamente mi ha fatto pensare a tutto ciò.
Era il 9 Novembre del 1989 e un giornalista qualunque si trova in una stanza qualunque. Tra le mani tiene un taccuino su cui ha preso qualche appunto, davanti a lui un uomo. Quest’uomo si chiama Gunter ed è un pezzo grosso nella Germania dell’Est.
Dopo gli accadimenti che seguirono a quella serata, scelta dal destino tra migliaia di altre serate, ci fu’ chi disse: “È stato un Raines Sufal”. Un caso fortuito.
Ma il giornalista, Riccardo, non crede proprio. Su quel foglio che teneva tra le mani non c’erano semplici domande di circostanza. Lui l’aria che tirava l’era riuscito a fiutare. Il fiuto è l’unico strumento del suo mestiere, quello e le conoscenze. Qualche sera prima aveva fatto delle telefonate, organizzato degli incontri.
“Domani sera falla una domanda sulla libertà di transito”, gli avevano suggerito. Uno di quei consigli buttati lì, sotto voce. Uno di quei consigli che in realtà non si fanno mai per caso.
“Ma si, fagliela… che vuoi che succeda?”
Che vuoi che succeda, dicevano.
Poche ore dopo l’incontro tra Riccardo e Gunter nelle redazioni dei giornali di tutta Europa scoppia letteralmente un casino. Una delle prime telefonate che arrivano al giornalista assomiglia più o meno a una cosa del genere:

Driiin
“Pronto?”
“Riccardo? Ma che cazzo hai combinato?”

Già, che cazzo aveva combinato Riccardo? Non lo sapeva, non poteva saperlo, non lucidamente. Riccardo non era un profeta, ma quella sera, quella sera … Al Corriere le voci che girano sono contrastanti.
“Riccardo è impazzito” dicono alcuni. Forse erano proprio loro quelli più convinti del contrario, quelli che lo dicevano con un sorriso sbigottito. Quelli che nel proprio intimo speravano che fosse davvero finita. Uno che ci aveva creduto è Giancarlo Gramaglia, che ha il coraggio di pubblicare la notizia.
Poche ore prima che esca il Corriere Livio Caputo, l’allora direttore dei servizi esteri, chiede al suo inviato a Berlino se quello che si andava dicendo fosse vero, se sta davvero succedendo. Non è chiaro, gli rispondono, è tutto da confermare, tutto da vagliare con attenzione. Bhe ma allora che si deve fare? Si esce così? Impossibile. Allora si cambia il primo capoverso della prima pagina? Ma cosa dici! Non si può fare così, bisogna rifare tutto, tutto!
E aveva ragione Caputo. Bisognava rifare tutto, non solo la prima pagina del Corriere.

Riccardo sta per concludere l’intervista. Gunter Schabowsky, il portavoce del Politik Bureau non è un uomo facile. Però è un uomo potente; le sue dichiarazioni nella Germania dell’Est sono la fonte assoluta della verità. Se l’ha detto Schabowsky le cose stanno così. E basta. Perché mentre parla in veste di portavoce quell’uomo non è più Gunter Schabowsky, ma il Politik Bureau stesso.
Qualche settimana prima era stato varato un alleggerimento delle condizioni sulla libertà di transito. Bastava possedere un passaporto ed ottenere un visto per poter andare ovunque si volesse. Ovunque, anche in Germania Ovest, l’altra Germania, la cui libertà era indicizzata dagli abitanti della DDR col numero di varietà diverse di salsicce negli alimentari. 82 per l’esattezza. Un sogno.
Come era un sogno assolutamente vano quello di riuscire ad ottenere passaporto e visto, perché quelli a cui dovevi chiederlo erano negli uffici della Repubblica Democratica Tedesca.

“Dove deve andare con questo visto?” “Fuori dal paese”. “Si ma dove?” “In Germania… Ovest”. “Aspetti qui che chiedo, intanto mi scriva il suo nome e quelli dei suoi famigliari”. “…”

Battute conclusive. Riccardo pone la prima, fatidica domanda:
“Non crede lei che sia stato commesso un grave errore nel promulgare la leggere che alleggerisce le condizioni di transito?”

Schabowsky si innervosisce, la domanda è insinuante.

“No nessun errore. Adesso solo possedendo un documento di identità è possibile passare la frontiera”.

Riccardo incalza, intuisce il momento.

“Anche per andare a Ovest?”
“Si”.
“Da quando”.
“Anche da questo momento”.

Il Politik bureau aveva parlato. La notizia si diffuse a macchia d’olio, c’era la testimonianza registrata, nessuno spazio per ritrattare quelle dichiarazioni. In quegli attimi nessuno aveva capito cosa stesse per succedere, neanche Riccardo immaginava che con tre semplici domande avesse appena dato la spallata definitiva a quel muro che attraversava l’anima di un intero popolo.
Riccardo non poteva sapere cosa sarebbe successo nelle ore a seguire, quale sarebbe stata la rilevanza storica di quell’evento che traeva il suo soffio vitale dalla sua intervista.
No, Riccardo Ehrman, giornalista italiano e inviato dell’Ansa, non è mai stato il profeta della caduta del muro, semplicemente vi inciampò e quella sera fu’ un goffo, inconsapevole e magnifico eroe.

mercoledì 7 ottobre 2009

VIVA LA LIBERTA' DI STAMPA! (e qualche riflessione)

Alessio Mazzucco

Allarmi! Allarmi! Siamo in una dittatura! Siamo tutti imbavagliati! Le libertà democratiche muoiono! Davvero? Se così fosse come potrei starmene qui tranquillo a scrivere? E come me migliaia (forse meno) di altri blogger? C’è la libertà di stampa in Italia? Non c’è? Domande difficili. La cui risposta io non l’affiderei certo ai politici (soprattutto dei giorni nostri) né ad una piazza gremita di manifestanti urlanti. Del resto la stessa manifestazione può essere vista come libertà d’espressione, giusto? Alt: non cadiamo nel banale.

Pluralismo c’è? Sì, si può dire di sì. Si possono esprimere le proprie opinioni? Sì, credo di sì. Dunque perché lamentarsi? E qui, come si suol dire, casca l’asino.

Dire che c’è libertà di stampa perché c’è pluralismo è una semplificazione di un problema che in Italia getta le radici in un sottobosco intricato. Ridefiniamo libertà di stampa: essere liberi di esprimere le proprie opinioni attraverso qualunque mezzo di scrittura. Be.. che dire? Formalmente in Italia è possibile. Ma c’è quella frase tanto celebre che mi ronza in testa (non cito a memoria): se un italiano non vede scarponi, camicie nere e manganelli, crede di vivere in un Paese libero. Fa sorridere; più che altro perché è verissima!

Perché VIETARE la libertà di stampa? Ci sono altri mezzi. Esempio: il controllo, le querele, i disincentivi al buon lavoro d’inchiesta, l’insulto. Storie inventate? Ma neanche per idea. Il servizio pubblico lottizzato e i conflitti d’interesse grandi come case rientrano nel controllo. Se i partiti possono decidere i consigli d’amministrazione RAI il gioco è fatto: contratti non firmati, ritardi, rimandi, richiami, ritiro delle coperture finanziarie per sostenere le cause civili in cui i giornalisti troppo spesso incappano. Invenzioni? No: pura verità. Chiara come la luce del sole. Non porto ad esempio l’argomento rovente “Santoro”, ma la nota e coraggiosa Gabanelli (a cui va tutta la mia stima). Corriere della Sera, 29 ottobre: la RAI non dà copertura legale al programma d’inchiesta REPORT. Il Sole 24 ore, per fortuna, riporta qualche giorno dopo (3 ottobre): la copertura legale per la Gabanelli c’è (anche se la stessa giornalista, in una nota, esprime l’aria pesante in cui si ritrova a lavorare). Ovvio: perché aggiungere legna ad un fuoco già difficile da spegnere? Basta attendere: della Gabanelli ci si può occupare più tardi, con più calma.

Il conflitto d’interessi è un’invenzione? Ma non diciamo bestialità! Al nostro Primo Ministro e alla sua famiglia fan capo giornali, quotidiani vari e periodici (senza contare la casa editrice la cui causa persa di natura imprenditoriale viene portata sul piano politico come una questione d’eccezionale rilevanza per il nostro Paese). Mi si vuol dire che non c’è conflitto d’interessi? Stessa storia per la parte opposta: lasciamo perdere le critiche alle mancate leggi sul conflitto, che si dice di Repubblica? Oramai da mesi ha smesso i panni del giornalismo per trasformarsi in una macchina politica alquanto aggressiva.

Ma sapete cosa più mi turba? La capacità di soffocare l’unico vero utilizzo della libertà di stampa per sinceri scopi giornalistici con i metodi più sottili. Come dicevo non servono manganelli e olio di ricino: basta un sistema democratico poco democraticamente eletto e pochissimo democraticamente funzionante per calpestare la libertà di un popolo e soffocare le fiamme dell’indignazione e dell’informazione libera.

Immaginiamo di essere giornalisti o redattori di giornali e, sempre con fervida fantasia, di ricevere querele e denunce perché i nostri articoli piacciono poco. Poniamo una denuncia per qualche milione di euro (anche se bastano poche centinaia di migliaia per lo scopo). Ora poniamo di vincere la causa civile. Cosa ci si guadagna? Nulla. Anzi, cosa si ottiene? Perdite di tempo, soldi buttati in avvocati e processi, discredito agli occhi dei lettori e dell’opinione pubblica in generale. Risultati? Molti: se un politico è abbastanza ricco e potente (e al giorno d’oggi troppi lo sono), o se per lui lo è il partito, può piegare un giornalista o un intero giornale a forza di denunce e tribunali.
Ecco come si piega la libertà di stampa, ecco come si imbavagliano i giornalisti. E sapete qual è l’ironia in tutto questo? Nessuno sgarra dalla leggi né dalla nostra tanto glorificata/vituperata Costituzione!

domenica 4 ottobre 2009

Il Burqa Dell'Ipocrisia

Gianmario Pisanu

Fedeli al vecchio adagio statunitense “The show must go on”, neppure di fronte ai nostri connazionali periti in Afghanistan il grand cirque du soleil della politica ha accennato ad arrestarsi.
Così, mentre le bare ammantate dai tricolori facevano ritorno in Italia, tra la costernazione degli intimi e il doglio nazionale, alcuni esponenti di spicco della scena pubblica profittavano dell’occasione per ridare fiato alle vecchie trombe, afone ormai da tempo per la pochezza delle idee in circolazione. Da consumati decani dell’accattonaggio politico, il padre padrone dell’IdV, Di Pietro, e quello della Lega Nord, Bossi, han cavalcato l’onda della commozione popolare per poi provare surrettiziamente a mutarla in indignazione. Il primo, ormai spoglio delle grezze tare lucane e impratichitosi nel politichese, ha sollecitato un’”attenta riflessione” del Parlamento in materia; il secondo, vellicando gli istinti materni della casalinga di Gallarate, tribolata dalla dipartita del figlio in terra afghana, ha invocato con fare paternalistico un rapido rientro a casa dei “nostri ragazzi”.
Al di là delle dispute ideologiche sulla legittimità o meno della guerra come strumento dirimente le controversie internazionali e di quelle geo-politiche sulla sua opportunità contingente( se ne potrebbe discorrere all’infinito, preferiamo rimandare ad kalendas graecas), la cadenza più che mai improvvida( e sospetta) delegittima le richieste opposte dai due leader, fino a circonfonderle di un’aura di pelosa demagogia. Non si comprende d’altronde a cosa alluda l’ex Pm impetrando la ben nota “riflessione”: termine bizantino, la cui essenza vacua e gattopardesca( “cambiare tutto per non cambiare nulla”) potrebbe essere ben compresa da chi è aduso al gergo parlamentare. Interpretandola alla lettera e senza alcuna malizia, si potrebbe pensare a un’ennesima conferenza internazionale in cui, per l’ennesima volta, il Presidente Obama dovrebbe ribadire con “rinnovato vigore” i suoi accorati appelli volti al mantenimento delle truppe in terra afghana, rimarcandone(sempre per l’ennesima volta) l’”importanza strategica” per l’intero Occidente e non solo. Il che apparirebbe oltremodo tautologico, oltreché inutile. In seconda istanza, potremmo scorgervi un invito alla ridiscussione delle regole d’ingaggio dei nostri soldati, o un’insofferenza crescente ad un rifinanziamento della missione. Ambo le conclusioni, va da sé, non sarebbero lusinghiere per il leader dell’IdV. E’infatti opinione condivisibile che, in un mondo strettamente interconnesso e caratterizzato da un multilateralismo sino ad ora sconosciuto, perdere la fiducia dei partners internazionali rappresenterebbe uno scotto troppo elevato; e ciò ineluttabilmente accadrebbe se, fomentati dalla morte dei sei parà e in balìa degli istinti più viscerali, decidessimo di ritirare le nostre truppe, scompaginando gli equilibri esistenti nella regione. Insinuare inoltre il tarlo del dubbio prima ancora che il colpo inferto sia stato assorbito e la ferita rimarginata, mette a repentaglio l’incolumità dei soldati ancora dispiegati e ringalluzzisce gli attentatori, i talebani, consci di aver aperto una falla tra le fila avverse e pronti a battere il ferro sinchè è caldo.
“Sangue e lacrime”promise Churchill agli inglesi, stremati dalla più logorante delle battaglie e timorosi del proprio avvenire . Parole d’ordine che, in tempo di guerra, possono cementificare un intero popolo attorno a un ideale, ma che, in epoca di non belligeranza, risultano cacofoniche e ai più assai sgradite. Specie se il nemico da estirpare viene percepito come entità metafisica , annidatasi in lande remote, non in grado di contaminare le nostre vite quotidiane nel loro placido divenire.
E’ dunque in un humus d’indifferenza e d’inedia , se non di malmostosa acredine(le voci levantesi contro i funerali di stato ne sono un fulgido esempio) che s’inscrivono le esternazioni dei due tribuni.
Tutto fa brodo, i voti “non puzzano”, si dirà. Ma, nonostante anni e anni di lotte fratricide tra fazioni avverse ci abbiano assuefatto al più becero cinismo, sicché s’è fatto il callo a tutto, risulta tuttavia arduo liquidare queste sortite come semplici “boutades”, mantra spesso adoperato per esorcizzare realtà fastidiose senza doverci fare i conti. Stavolta, infatti, s’è valicato quel confine che separa la politica, dimensione prosaica della vita per antonomasia, dalla sfera del dolore. E mentre il momento richiedeva un minuto di raccoglimento, qualcuno strepitava, infrangendo la più elementare regola di buon senso: il rispetto per chi non c’è più.