domenica 29 novembre 2009

Atei, Questi Sconosciuti

Elena Scaltriti

“Maybe it’s too late for intellectual debate, but a residue of confusion remains.” Così esordisce Greg Graffin in “Atheist peace”, una delle più celebri canzoni dei Bad Religion, band americana che suona punk rock da un buon trentennio (caldamente consigliati). Nonostante il titolo possa trarre in inganno, il testo della canzone rende perfettamente quell’alone di mistero misto a timore che circonda la figura dell’ateo, soprattutto in Italia.

Mangiano i bambini? Sono libertini? Hanno levato le ancore dal porto sicuro della moralità per far rotta verso un futuro ancor più dissoluto e privo di punti di riferimento? Questi sono solo alcuni degli interrogativi che circolano attorno agli atei, i quali non fanno molto per chiarire la situazione agli occhi del credente medio, ormai convinto che sia più facile vincere al superenalotto che trovare un ateo in carne e ossa sul posto di lavoro. In realtà, ciò che rimane sconosciuto ai più è che gli atei non sono affatto una specie in via d’estinzione sul suolo italiano. Secondo i dati riportati dall’UAAR (Unione degli Atei Agnostici e Razionalisti), si è passati dal 5,2% del 1987 al 18% del 2003 sull’intera popolazione e il fenomeno non manifesta segni di arresto. Siamo quindi pienamente legittimati a chiederci quali siano le caratteristiche tipiche e le motivazioni del giovane ateo italiano.

Croce e delizia del Belpaese, la famiglia gioca un ruolo di punta nel processo di socializzazione religiosa fin dall’infanzia. Si tratta di una sorta di “legge di inerzia” che porta l’orientamento religioso della famiglia d’origine ad auto-riprodursi nelle generazioni successive. È facile intuire, quindi, come i giovani atei nascano e crescano solitamente in nuclei familiari in cui almeno uno dei genitori si attesta su posizioni di ateismo e altrettanto ragionevole è la connessione con situazioni segnate da separazioni, divorzi e matrimoni civili. Inoltre, ricerche di carattere sociologico condotte da professori dell’università Cattolica di Milano hanno rilevato che gli atei sono presenti soprattutto nel Nord-Ovest e nel Centro e tendono ad avere titoli di studio più alti, tanto tra gli intervistati quanto tra i loro genitori. A questo si unisce una maggiore partecipazione in associazioni e partiti, con un’estremizzata auto-collocazione politica a sinistra e la diffusione di un’immagine più ampia della politica, percepita non soltanto come “tutela dei propri interessi”, ma anche come “dovere di ogni cittadino”.

Eppure qualcosa non torna. Il 18% di 60 milioni di abitanti equivale a quasi 10 milioni di italiani. Chiunque storcerebbe il naso di fronte a queste cifre: dove sono tutti questi atei? Formerebbero un più che nutrito esercito in seno alla nazione che ospita la sede della chiesa cattolica e avrebbero i numeri per far valere le loro posizioni. Invece latitano (che siano rinchiusi nelle segrete del Vaticano?). Si perdono nella “atheist peace” di cui parla Graffin e si convincono, con rassegnazione, che non valga la pena far sentire la propria voce, animati dall’italianissimo “tanto non cambierebbe nulla”. L’ateo fatica a giocare a carte scoperte e, quando trova il coraggio di farlo, le occhiate si dividono tra quelle colme di pietà e quelle in cui guizza il germe del sospetto. Parlerei di “omertà dell’ateismo” in Italia, un sapere e non sapere allo stesso tempo, un “so che sei ateo, ma non ti preoccupare: non lo dirò a nessuno”.

Anche per combattere questo torpore, è nata l’Unione degli Atei Agnostici e Razionalisti (UAAR), l’unica associazione nazionale con lo scopo di rappresentare i cittadini atei e agnostici italiani. Diverse le personalità che vi hanno aderito, da Margherita Hack a Danilo Mainardi, fino a Piergiorgio Odifreddi e altrettanto varie le iniziative organizzate, come la campagna degli autobus “atei”, il progetto per l’ora alternativa a quella di religione nelle scuole e lo sbattezzo.

Parlando da atea che frequenta un’università cattolica -in quale paradosso spazio-temporale mi sono cacciata, grande Giove!- non posso far altro che sperare che gli atei italiani si sveglino dal sonno in cui sono piombati e si rendano conto che non c’è niente di peggiore che vergognarsi delle proprie posizioni e nascondere la testa sotto una coltre di indifferenza e rassegnazione.

giovedì 19 novembre 2009

Eppur Si Muove?

Filip Stefanovic

Chiunque si sia mai minimamente occupato di economia conosce la teoria dei giochi, e più precisamente un concetto di risoluzione definito equilibrio di Nash, dal famoso matematico John Nash, quello di Russell Crowe in A beautiful mind, per intenderci. Secondo questo modello, i vari giocatori sono perfettamente informati sulle diverse strategie che gli altri partecipanti possono adottare, ed il profilo risultante è tale che nessuno dei giocatori può trarre ulteriore vantaggio nel cambiare la strategia messa in atto, a patto che gli altri concorrenti non modifichino le loro.

Riflettevo così l’altro giorno, in maniera piuttosto disimpegnata, riguardo al sistema politico italiano, e pensavo a come fossero passati già quindici anni - per la precisione era il 10 maggio 1994 - dal primo insediamento a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Per rendere forse meglio il concetto, vorrei ricordare che in quella data alla presidenza degli Stati Uniti sedeva Bill Clinton, in Francia François Mitterrand, in Germania Helmut Kohl, ancora in carica al primo governo sulla scia della riunificazione tedesca, in Russia Boris Eltsin... Insomma, nomi che nell’immaginario comune, per i tempi della politica, appartengono al passato remoto. In un articolo di pochi giorni fa, Gianmario Pisanu ricordava come solo nella Seconda repubblica si siano già succeduti dieci governi, mentre l’attuale scricchiola tanto da tenerne i ministri svegli la notte. Al contempo è però importante ricordare che a parte pochi noti, il riciclo di nomi, sia delle più alte cariche che non, è stato tale da causare ben poche sorprese e rinnovamenti, non dico da un governo all’altro (di sinistra o destra che fosse), ma anche da una Repubblica all’altra. Così, a parte la paralisi politica dettata dalla sua endemica fragilità, si nota ben poca discontinuità, segno sempre di radicati cambiamenti in atto, col passare di governi e legislature. Pare proprio che l’Italia, o meglio le forze sociali, politiche ed economiche al suo interno, abbiano trovato un punto d’equilibrio - più o meno riuscito - dal quale non hanno ragione di spostarsi. Più il tempo passa, più gli storici problemi della penisola appaiono quanto mai cronici, dalla corruzione, alla giustizia, alla collusione tra Stato e mafie, al parassitismo, nepotismo, all’autoreferenzialità della classe politica. Il punto morto nel quale si è incagliata l’Italia è come un tumore che vegeta, e pian piano colpisce anche le cellule sane che lo circondano. Il risultato è l’apatia, la sfiducia ed il totale scoraggiamento dei cittadini, che ben consci dell’aria che tira e col fiuto affinato da secoli di servaggio, non fanno nulla perché questa situazione migliori, ma tentano a loro volta, nel loro piccolo, di trarre qualche vantaggio dall’inefficienza generale, per non pagare tasse, imposte, od anche solo un biglietto dell’autobus. Poiché la classe dirigente è la prima a (non) farlo, non si comprende perché il singolo cittadino, che in una vita non guadagnerà forse quanto taluni evadono in un anno, debba prodigarsi tanto nel rispettare come un pollo qualsiasi balzello gli venga imposto, aumentando soltanto l’entropia ed il senso di inaffidabilità dell’insieme.

È certamente vero che dovrebbe essere l’uomo politico, per primo ed autonomamente, a dare l’esempio e puntare sulla trasparenza educativa, ma appurato oramai da anni che ciò non avviene, questa colpa perde valore di scusante per il singolo. Se ognuno di noi, nel suo piccolo e senza alcun tornaconto immediato, si prodigasse nel fare, se non bene, meglio, potrebbe cambiare qualcosa? Potrebbero, forse, gli altri giocatori capire che le scelte stanno cambiando, e che la propria strategia non è più quella vincente, ma un’altra, forse più vantaggiosa per la comunità tutta? Potrebbe addirittura rivelarsi il tramonto di una classe politica, palesemente inadatta a rispondere alle esigenze di una società più pretenziosa della nostra? Oggi più che mai si punta su parole quali libertà e democrazia, più a colmare il baratro della sfiducia nello strumento politico che per una reale coscienza di concetto. Il risultato è solo uno schietto individualismo, con la più grave conseguenza di nascondere qualsivoglia progetto futuro, una visione a lungo termine, una meta verso la quale tendere il sistema paese. Ma senza una rotta precisa, sino a quando la nave potrà restare in mare aperto? E, quando si troverà ad attraccare, siamo sicuri che sarà in prossimità di un porto nel quale riparare?

Così sfiduciato, mi trovo poi a leggere giornali serbi, la ben più grave stagnazione del mio paese natale, mi dico come in fondo l’Italia non stia messa tanto male, e, con una botta d’ottimismo, che anche le pretese che ognuno pone verso lo stato in cui vive siano proporzionali allo sviluppo conseguito; come ciò che a noi, qui, può apparire grave, sia in realtà meno peggio di quanto sembri. Eppure non credo che il benchmark italiano debba essere la Serbia, quanto piuttosto Germania, Francia o Regno Unito. Ecco, forse me le annoto, per la prossima volta che mi toccherà di emigrare.

No Taxation Without Representation

Diego Zunino

Era appena trascorso il mio primo giorno di Università da studente del terzo anno, il pretenzioso Euro City -agglomerato di vagoni più o meno riportati alla decenza da almeno trent'anni- diretto a Nizza stava ormai lasciando la Stazione Centrale di Milano.

Vecchi scompartimenti, sedili polverosi: sovraffollatissima (alquanto pretenziosa) prima classe che sfruttava gli ultimi sgoccioli d'estate. È stato in questo ambiente squisitamente naif che ho iniziato a ripensare in un'altra prospettiva alla legge elettorale.

L'elegante signora di mezza età dinanzi a me chiede cordialmente indicazioni per le Cinque Terre, quali coincidenze ed altre amenità simili; dal suo accento ispanico mi rendo conto che è straniera: dell'Uruguay per la precisione, mi racconta di tutto sulla sua vita da quando ha lasciato l'Italia alla volta di Montevideo, al fratello che mai ha voluto sapere più nulla del paese natio fino a un bollettino tragicomico sui morti di influenza A nel suo paesino di 700 anime.

Tra le tante chiacchiere per ammazzare una sgradevole ora di tempo mi è rimasta impressa una cosa che mi ha detto con aria quasi ironica "Dell'Italia mi arrivano gli avvisi che debbo andare a votare, ma io non so nulla del vostro Paese, né dei partiti né delle persone. Non sono mai andata a votare, né tanto meno mio fratello che, si figuri, l'avete pure fatto Console Onorario. Che ci vuole fare, non mi sembra nemmeno giusto: io da voi mica pago le tasse, perché devo potere votare?".

Ecco, mi è tornata in mente la protesta dei coloni americani: no taxation without representation. Chi ha la doppia cittadinanza e magari in Italia non c'è mai stato, perché deve votare?
A mio parere il voto degli “Italiani all'estero” suona come il volere malinconicamente imitare chi possiede ancora residui di colonie (es. I territori d'Oltremare in Francia) che fanno parte della nazione, evocando invece forse residui di emigranti dei tempi che furono.

La legge che è stata oggi proposta prevede invece di permettere il voto financo alle elezioni comunali ai cittadini extracomunitari immigrati e residenti da più di cinque anni, inoltre citando il Corriere: dà la possibilità agli immigrati di essere eletti consiglieri e di fare parte della giunta con l'esclusione delle cariche di vicesindaco e, ovviamente (?), di sindaco.

La proposta di legge è, altrettanto ovviamente per il buon Calderoli, “un attentato alla democrazia”, mentre per l'(ex) compagno Cicchitto “inaccettabile […] senza che la presidenza del gruppo sia stata interpellata […] senza che rientri negli impegni di governo”.

Ho imparato oggi una memorabile lezione di diritto costituzionale, in Italia:

· Immigrati residenti in Italia da cinque o più anni regolarmente attentano alla democrazia se pagando tasse dirette (il lavoro prestato) e indirette (l'IVA), con i figli che parlano un italiano migliore di tanti italiani perché hanno studiato nelle nostre scuole dove hanno pagato ivi le tasse di iscrizione possono volere ardire di scegliersi un consigliere comunale, piuttosto che non votare rimanendo vittima di scelte che li penalizzano magari in quanto ceto socialmente più debole.
· I nostri compatrioti che parlano con accento ispanico o americano, non pagano nessuna tassa -e certo, le rimesse non sono più quelle di una volta- ma possono scegliersi ben dodici deputati e sei senatori. (http://bit.ly/8aVjOh)
· I Parlamentari hanno il divieto di mandato imperativo nei confronti di chi li ha eletti ma non verso chi li ha nominati, o è stato nominato insieme a loro ma meglio.

Suggerisco ai tanti immigrati lesi da chi li accusa, loro, di attentato alla democrazia che in caso di loro inclusione in una lista civica, invece di chiamarla con i soliti nomi propri del civismo si fregino di un suggestivo: “Albissola (o comune interessato) Tea Party” .

martedì 17 novembre 2009

Berlusconi E l'Eutanasia Di Un Governo

GianMario Pisanu

Come spesso ama ripetere il Ministro Tremonti, la parola crisi( dal greco krisis,”forza distintiva”, “separazione” e quindi “scelta”, “decisione”) implica al contempo un momento negativo, inteso come pura contrapposizione alla realtà preesistente, e in seconda istanza una fase propositiva, quando un nuovo ordine si affaccia sulle macerie ancora fumanti dello status quo appena abbattuto.
Secondo quanto trapelato recentemente da ambienti del centro-destra vicini al Premier, è in quest’ottica che Berlusconi, tribolato dalle annose vicende giudiziarie che lo riguardano e amareggiato dalle accuse di cesarismo mossegli dal co-fondatore del PdL Fini, starebbe meditando un ritorno anticipato alle urne. La lista dei detrattori accusati di cospirazionismo è assai lunga: dai giudici rifondaroli ai vassalli disobbedienti che anelano al suo scettro (Fini e democristiani vari) , dall’astiosa combriccola “Repubblichina” al Presidente Napolitano (reo di non aver mantenuto ciò che non poteva promettere) , senza trascurare l’ex concubina pietra dello scandalo, Veronica Lario, e le impietose testate giornalistiche estere che spesso e volentieri ne tratteggiano esilaranti caricature (e perché no, anche la sempiterna CIA, specie da quando Obama, un democratico, è alla Casa Bianca) . Tutti remerebbero in direzione avversa , tutti lo spedirebbero dritto dritto a Sant’Elena senza passare per l’Elba, se solo potessero. Convinto dunque di avere contro i cosiddetti “poteri forti”(espressione abusata e fumosa, caposaldo della dietrologia a buon mercato) , l’eventualità di una legittimazione popolare di massa appare quale unico argine a un declino lento e inesorabile. Una Nuova Alleanza con gli italiani dopo il diluvio elettorale, che spazzerebbe via maldicenze e oppositori, va profilandosi all’orizzonte della scena politica italiana, specie se la vis agonistica e il fiuto dell’imprenditore prevarranno sugli accorti consigli di paludati strateghi, in primis Letta, che guardano alle elezioni con timorosa circospezione.
Verrebbe in tal modo confermata ancora una volta l’endemica instabilità dei nostri governi, prerogativa che ci accompagna sin dai tempi dell’Unità e che ci caratterizza, ahinoi, agli occhi del mondo intero insieme a pizza, mafia e “O’ sole mio”.
Se è vero infatti, come soleva dire De Gasperi, che un politico guarda alle prossime elezioni mentre uno statista alla prossima generazione, i nostri dirigenti non brillano certo per lungimiranza e, una volta metabolizzata l’eventuale sconfitta alle urne, promettono ai propri seguaci, assetati di revanscismo e fedeli alle proprie origini guelfo/ghibelline, di adoperare ogni mezzo per abbreviare l’estenuante scadenza quinquennale della legislatura. Sicchè, nell’infuocata primavera del 2006,mentre ancora non si erano spenti gli echi delle polemiche per l’esito risicato , Berlusconi annunciava a gran voce l’imminente fine del Governo Prodi (che sarebbe caduto ben due volte di lì a un anno e mezzo) ; parimenti, dopo la batosta subita nel 2008, Veltroni profetizzava arrembante che “il governo non sarebbe durato 5 anni”, nonostante la schiacciante maggioranza parlamentare conseguita dallo schieramento avverso. Così facendo, in un clima di delegittimazione reciproca e di totale sfiducia nei meccanismi dell’alternanza di una normale democrazia parlamentare, l’Italia è arrivata a detenere il poco invidiabile record di 60 (sessanta!) governi in 43 anni, dal 1946 ad oggi, contro i 17 degli Usa e gli 11 francesi (questi ultimi con sole 8 diverse presidenze) . Vi è tuttavia un elemento di sostanziale novità nella crisi che serpeggia tra le fila dell’attuale governo.
All’epoca della vituperata Prima Repubblica, quando le maggioranze si formavano dopo complicate trattative parlamentari all’oscuro dai riflettori dell’opinione pubblica, i partiti traevano legittimazione quasi per intero dal Parlamento ( il voto popolare sanciva esclusivamente i rapporti di forza tra gli schieramenti) . Di conseguenza le crisi di governo, perlopiù provocate da trame di palazzo, fiorivano a grappoli( basti pensare ai governi “balneari”, così chiamati perché non resistevano ai rigori autunnali) , esaltando l’immagine di autoreferenzialità che un mondo (la Politica) rincantucciato nella sua turris eburnea dava di sé. Con il crollo dei partiti di massa , e più in generale delle ideologie, successivi alla fine della Guerra fredda, il sistema si rivelò improvvisamente obsoleto e iniquo agli occhi dei cittadini, che rivendicavano finalmente maggior voce in capitolo nella scelta dei propri rappresentanti. Fu allora che, in preda al marasma giacobino e ai furori populisti scatenati da Tangentopoli , l’Italia perse una storica occasione per modernizzarsi. L’ondata rivoluzionaria che attraversò il Paese partorì il proverbiale topolino, stavolta nelle vesti di una fantomatica Seconda Repubblica, così chiamata per scimmiottare le cinque Repubbliche francesi (quelle sì, generate da cambiamenti radicali, nel bene o nel male).
I risultati sono sotto gli occhi: in 15 anni,ben 10 governi diversi (Berlusconi I,II,III e IV,Prodi I e II ,D’Alema I e II, Dini , Amato II) , il doppio rispetto agli Stati Uniti e il triplo di quelli francesi maturati nel medesimo lasso di tempo. Solo l’anomalia berlusconiana e il suo straordinario potere mediatico e finanziario hanno mitigato, almeno in parte, l’esasperata caducità dei governi( peraltro con due crisi all’attivo, nel 1994 e nel 2005, molteplici rimpasti e aggiustamenti in corsa). Ma ecco che, proprio quando il quadro politico pareva essersi stabilizzato in seguito alle elezioni del 2008, che han mutilato le estreme e conferito un mandato forte e inequivocabile alla coalizione di centrodestra, una “crisi d’abbondanza” , per certi versi speculare a quelle parlamentari, mina la solidità del governo. Paradossalmente, il vasto consenso raccolto nel paese si è rivelato strada facendo un boomerang per il Presidente del Consiglio che, certo dell’appoggio popolare, si è speso sino al parossismo per consolidare l’immagine di padre della patria, “Presidente di tutti”( si pensi al paternalismo ostentato in occasione del terremoto dell’Aquila, così plateale da non trovare riscontri in esperienze recenti), confidando di poter assicurare in tal modo lunga vita al proprio esecutivo.
Ma l’Italia non è uno Stato presidenziale e neppure una democrazia di stampo plebiscitario. E’retta da un sistema a base parlamentare legittimato dal voto elettorale, Giano Bifronte che fatica a incasellarsi in una qualsiasi categoria weberiana . Illudersi di poterla governare a suon di sondaggi è da sconsiderati, specie se si ignorano gli altri fattori di stabilità necessari. Convinto che mostrare i muscoli e esasperare i toni ad ogni costo fosse indice di forza, anche a costo d’inimicarsi potenziali alleati( la maldestra gestione del caso Boffo che ha deteriorato i rapporti con parte del mondo cattolico è a tal proposito eloquente ) , il Premier s’è a lungo andare scavato la fossa con le proprie mani, sicché persino all’interno del suo partito c’è già chi parla di post-berlusconismo, nonostante rimanga ancora primatista indiscusso di suffragi. Come in occasione dell’ormai celebre discorso del predellino, Berlusconi è dunque pronto a giocarsi la partita della sopravvivenza ( politica) per non morire d’inedia. Ma un eventuale chiamata alle urne, un anno e mezzo dopo l’inizio dell’attuale legislatura e a tre anni e mezzo dalla sua naturale scadenza, comporterebbe per l’Italia danni d’immagine e economici non indifferenti. In primo luogo, paleseremmo ancora una volta la nostra schizofrenia , confermandoci un partner inaffidabile nel panorama internazionale, perché, com’ebbe a dire Bush (ex sodale del Premier) è assai complicato intrattenere solide relazioni con un paese che cambia amministrazione a ogni pié sospinto. Ma c’è dell’altro.
In virtù del decreto mille proroghe del 2005 varato dall’allora maggioranza di centrodestra, con l’appoggio una volta tanto convinto dell’opposizione, il rimborso elettorale ai partiti viene comunque effettuato anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere, sommandosi ai nuovi rimborsi previsti per legge e dovuti per le eventuali elezioni prossime a venire. Così, ad esempio, Pdl e Pd continuano a ricevere laute sovvenzioni per le elezioni del 2006 (fino al 2011, scadenza naturale della defunta legislatura), per quelle del 2008 ( fino al 2013), cui s’aggiungerebbero nuovi rimborsi in caso di votazioni anticipate nel 2010. Insomma, un triplo finanziamento pubblico camuffato ( giacché questi erano stati abrogati da un referendum del 1993; fatta la legge, trovato l’inganno). Uno spreco di denaro pubblico assurdo e dissennato, specie in tempi di vacche magre, considerando tra l’altro gli ingenti costi gestionali che un'elezione comporta ( per quelle del 2006 le spese complessive ammontarono a circa 393 milioni di euro). Con quale faccia e a che diritto si andrebbe poi a cianciare di tagli, sacrifici, lacrime e sangue ?

lunedì 16 novembre 2009

Crocifisso Nel Calderone

Amedeo Maddaluno

Come tutto ormai in questo nostro povero paese, anche un tema profondo come l’opportunità o meno di esporre il crocifisso cristiano nei luoghi pubblici non è stato oggetto di un sereno dibattito, in seguito alla nota sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma è stato trascinato nella macelleria della strumentalizzazione politica, un “calderone” che tutto inghiotte e tutto trita. Tutto finì in un colossale lancio di scarpe fra laici e cattolici. Non ho la pretesa di portare a soluzione un dibattito in cui tutti hanno detto di tutto… mi piacerebbe, timidamente, suggerire un ottica un po’ diversa del problema. Personalmente sono assai contrario a rimuovere il crocifisso cristiano dalle aule scolastiche “manu militari”, in seguito ad una sentenza di tribunale, specie quando la maggior parte degli italiani appare contraria. I simboli, specie se hanno un enorme peso storico, molto meglio spiegarli che rimuoverli. Percepisco a pelle, in oltre, l’antidemocraticità della risoluzione, l’imposizione venuta dall’alto. Bene sarebbe che potessero essere gli italiani ad esprimersi referendariamente… ma per abrogare quale legge? L’esposizione del crocifisso cristiano nei luoghi pubblici e civici è, per così dire… una prassi. Il punto è proprio questo. Come la pensiamo noi cattolici sulla prassi che vuole il nostro crocifisso esposto nei luoghi pubblici? Non ho mai detto “crocifisso”, ma “crocifisso cristiano”: è senz’altro, come abbiamo detto, un simbolo - ma uno dei tanti - della storia e della cultura del nostro paese, ma è solo in ambito cattolico che quel simbolo cessa di essere un segno storico al pari di altri, e diventa il fondamento del messaggio più profondo della nostra fede, il Dio fattosi uomo e per l’uomo immolatosi. Lo spunto che ci terrei a suggerire è questo, rivolgendomi ai miei correligionari cattolici. Quel simbolo è il segno potente del nostro rapporto con Dio: non temiamo si svilisca, per così dire “inflazionandosi”, a forza di venire esposto anche nelle scuole, e nelle poste, negli uffici… ci fa poi così piacere che la croce cristiana sia ridotta a semplice “prassi”, lei che era “scandalo per i giudei, e follia per i pagani”?

domenica 15 novembre 2009

Bugie, Promesse, Populismo: Dove Andremo A Finire?

Alessio Mazzucco

Che il Presidente Fini prenda le distanze dalle iniziative di Governo non può essere certo oggetto di stupore. A volte è imbarazzante: un’armata che con trombe e tamburi fa gran caciara sull’inno di una liberazione da una (dicunt) sorta di inesistente dittatura comunista nel nostro Paese. Dal biennio prodiano (non certo un biennio rosso) è ritornato più forte che mai il signor Berlusconi. E questa volta è partito in quarta. Vediamo a più di un anno e mezzo dal suo insediamento che accade.

Accanto ai soliti slogan e agli eccessi populisti, si sono affacciati nuovi scenari e nuove iniziative politiche che in Italia non si vedevano da molto tempo. Forse troppo. Temi toccati: pubblica amministrazione, scuola e università, tasse. Questi, almeno, sui quali vorrei riflettere.

L’astro nascente del PdL, ministro Renato Brunetta, ha dichiarato guerra ai fannulloni. Ricordate? Un’inchiesta de L’Espresso denunciava un Ministro della PA assenteista al Parlamento Europeo e in difficoltà a trovare una cattedra universitaria (nonostante le sue millantate glorie, tra cui ricordiamo la possibilità di vincere un bel Nobel). Dimentichiamoci delle precedenti questioni e parliamo di politica. La lotta di Brunetta nei confronti dell’inefficienza della PA ha un sapore epico, una sorta di lotta a metà tra l’essere il paladino del buon lavoro e il minister vanagloriosus, bravo a parlare, un po’ meno bravo ad ottenere. Siamo seri: quanto è andato avanti a parlare di lotta all’assenteismo? Un anno, forse più. E i dati lo hanno smentito qualche tempo fa (lui stesso lo ammise) mostrando una controtendenza nell’indice di assenteismo. Ma ci son cose che mi stanno più a cuore: facilitazioni burocratiche, class action (scomparsa tra i meandri di un parlamento lento e bloccato), assalto ai baluardi di potere delle PA, … “Rivoluzione in corso” è il nome del suo libro; tra sistemi di carota e bastone e qualche annuncio populista magari si metterà in moto qualcosa. Vedremo gli effetti del nuovo DDL da poco approvato.

Istruzione: finalmente si razionalizza. Ad aspettare che le università e le scuole si mettano in moto autonomamente per un rinnovamento interno, rimarremmo qui qualche decennio. Sì agli accorpamenti, no a facoltà inutili. Un applauso al coraggio di certi aspetti della riforma. Ma i fondi ripartiti tra le Università che metodi useranno, quali criteri? E la ricerca la buttiamo via così, senza alcun rimorso? Voglio dire: per crescere e ritornare ad essere competitivi nel mercato mondiale serve ricerca e innovazione. Tagliare i fondi ai laboratori e ai centri di ricerca universitari è stata così una buona idea? Non credo. O forse tagliare le ore d’insegnamento delle materie essenziali per una cultura generale o per avere buoni strumenti in futuro è cosa buona? Non mi convince. Per chi volesse consultare i dati cito due articoli: da Il Sole 24 Ore, “Doccia fredda sull’istruzione: in finanziaria 7,3 miliardi in meno in tre anni” di Claudio Tucci; da lavoce.info “La scuola dopo l’ennesima doccia scozzese” di Chiara Saraceno.

Tasse. L’ICI abolita. Finalmente, scrosci d’applausi, evviva! Evviva cosa? Al massimo evviva il populismo. Un recente articolo de Il Corriere di Sergio Rizzo (“I conti in rosso dei Comuni (senza Ici)”, 8 novembre) è illuminante: i comuni più grossi sono stati soffocati. Così parla Chiamparino, Sindaco di Torino e Presidente dell’Anci: “Il fatto è che non ab­biamo più autonomia fiscale. L’Ici è pra­ticamente sparita, l’addizionale Irpef è bloccata. Il problema non è tanto il pat­to di stabilità, quanto il fatto che manca­no proprio le risorse.”. Ma abolire l’ICI a scaglioni come il Governo Prodi aveva intenzione di fare proprio non piaceva? Ora applaudono tutti, ma quando i Comuni taglieranno definitivamente fondi e iniziative, vedremo la carica populista della riforma sciogliersi come neve al sole. L’IRAP lasciatela stare: vi prego! Almeno potremo continuare a vantare la SECONDA sanità migliore al mondo (con pecche e difetti, ovvio, ma pur sempre democratica e accessibile). Magari, se proprio si vuol far pagare meno tasse a tutti, non è meglio più lotta all’evasione con controlli incrociati, indagini sui conti di grandi e medi imprenditori, commercianti, liberi professionisti, sui loro beni, ecc.. (come del resto faceva il Ministero del Tesoro 2006-2008) e meno scudi fiscali?

Ho una domanda per il Governo: avevate promesso l’abolizione delle province; non se ne parla più. Un’altra domanda: Obama punta ad una spinta all’economia data da incentivi sullo sviluppo di energie pulite. Noi che si fa? Daremo incentivi per le energie pulite? Svilupperemo nuovi settori di ricerca per metterci, se non all’avanguardia, almeno nella posizione di Paesi che ricominciano a crescere tanto dopo la crisi? Che si è fatto per il rapporto tra ambiente e crescita? Era nel programma dell’attuale Governo; la vostra promessa era occuparvene, o no?

Non parlerò di Giustizia perché la discussione è ancora in corso. Solo un’ultima cosa mi vien da dire: si potrebbero proporre e realizzare meno cattedrali nel deserto e dare una visione più di lungo termine ad un Paese alla deriva? Magari meno ponti sullo stretto di Messina per infrastrutture ferroviarie migliori? Meno parole e più fatti su un federalismo fiscale serio? Magari meno discussioni feroci sui crocifissi e più dibattiti e ragionamenti politici ed intellettuali su una società sempre più globalizzata ed eterogenea? Magari meno chiacchiere sugli ammortizzatori sociali esistenti e più idee per nuove strutture del mercato del lavoro, rapporto coi sindacati e protezione sociale ed economica dei precari?

Personalmente sono molto preoccupato. Scrivo questo articolo spinto da dubbi e domande sincere. Che si sia sostenitori o no di questo Governo, questo è IL Governo del nostro Paese: a loro, quindi, dobbiamo rivolgere le nostre perplessità. Al di là dell’antiberlusconismo e di questa fantomatica lotta tra un popolo che si fregia di esser portatore di libertà e un gruppo di cittadini marchiati indelebilmente come “compagni” e “comunisti”, ragioniamo seriamente sul nostro futuro. Onestamente, non lo trovo così roseo.

venerdì 13 novembre 2009

La Crisi del Centro-Sinistra

Giorgio Piga

Forse è un titolo banale quello che ho deciso di dare al seguente articolo; tuttavia, non trovo niente di meglio che riassuma in maniera così semplice ed efficace quella che è, appunto, la crisi del centrosinistra. Crisi che ha raggiunto il suo apice con la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 2008 che, come ben sappiamo, hanno determinato l’uscita dal Parlamento delle frange della sinistra e della destra estrema. Tutto ciò ha portato ad una notevole semplificazione del sistema politico e, finalmente, ad una situazione in cui i piccoli partiti non sono più gli aghi fatali della bilancia del destino di una coalizione di governo (anche se, francamente, a pagare le spese di questo sono quasi sempre stati i governi di centrosinistra più che quelli di centrodestra, se escludiamo la caduta di Berlusconi, nel ’94, ad opera di Bossi).

Proprio qui sta una delle prime considerazioni da fare: per ben due volte, l’alleanza di centrosinistra capitanata da Romano Prodi ha avuto mandato di governare e dopo due anni, con una puntualità da fare invidia ad un orologio svizzero, è caduta. La prima volta grazie alla coerenza e lungimiranza politica del signor cashmere, alias Fausto Bertinotti, il quale, convinto che Prodi non avrebbe tutelato gli interessi dei lavoratori e poiché ci si accingeva a parlare di meritocrazia, questa sconosciuta, ha ben pensato di negare la fiducia al premier assieme a tutti i suoi adepti e di lasciare il paese in mano al signor B. La seconda volta ha provveduto la scempiaggine intellettuale dei senatori Rossi e Turigliatto, sempre Prc, in prima istanza e, in seconda istanza, ci si è messo il fermo e convinto ideale politico di Mastella che, fulminato un anno dopo sulla via di Arcore, ha deciso che il suo vero partito era il Pdl.

Non tanto la prima caduta di Prodi, quanto la seconda, hanno trascinato il centrosinistra in uno sfacelo che credo lascerà i segni per i prossimi quindici anni, mentre la sinistra radicale (che nel frattempo continua a dividersi poiché non ha imparato la lezione) è stata letteralmente annientata. Ovviamente, ciò ha comportato una batosta elettorale in parte arginata dalla creazione del Pd e dalla presenza di un leader più carismatico di Prodi, vale a dire Walter Veltroni, a cui va riconosciuto il merito di aver salvato il centrosinistra dall’implosione; consapevole del fatto che presentarsi alle elezioni con le solite, vecchie, trite e ritrite alleanze avrebbe significato una sconfitta di dimensioni epocali, ha rotto i ponti con l’ala estrema rappresentata da Pdci, Prc e Verdi con cui, si sa, i risultati ottenuti sono stati a dir poco terrificanti. Ma proprio qui sta un’altra considerazione: l’incapacità totale del partito di sostenere il suo segretario, nonostante la situazione fosse già abbastanza compromessa. Siccome pare che il detto “lupo perde pelo ma non il vizio” sia assolutamente vero, i dirigenti del Pd hanno continuato bellamente a litigare tra loro e ad attaccare il loro capo che, com’era prevedibile, non è stato in grado di tenere le redini della situazione e ha dovuto abbandonare la segreteria dopo le prima disfatte elettorali delle regionali.

Ora come ora, il Pd manca di una forza e di una coesione che siano in grado di contrapporsi alla potenza mediatica, prima ancora che politica, dell’Egoarca. E tale situazione sembra destinata a permanere, almeno sino a quando all’interno di esso rimarranno i “soliti noti” che, pur di non mollare la loro situazione di privilegio, paiono propensi a mandare tutto in malora senza porsi troppi interrogativi sulle conseguenze dei loro atti. Fino a quel momento, benché i risultati dell’affluenza delle primarie siano più che confortanti e facciano sperare in una rinnovata fiducia della gente, chi sarà indeciso se votare centrodestra o centrosinistra sarà molto riluttante a ridare fiducia a quest’ultima, visti i precedenti.

Più che mai il Partito Democratico necessita di quel rinnovamento tanto atteso, il solo che sia in grado di creare un’opposizione forte e con spiccato senso di identità, pur nel pluralismo delle idee e delle opinioni; dovrebbe operare, a mio avviso, una sorta di aufhebung, come diceva Hegel, che consenta il superamento della crisi e delle controversie ma che conservi, allo stesso tempo, quella che è la dialettica interna sfociando in una “sintesi”, sempre per citare Hegel, a patto che, ovviamente, porti alla nascita di obiettivi concreti e non alle solite lotte intestine; ma non basta. Il Pd dovrà anche riprendere quella vecchia abitudine che caratterizzava il centrosinistra o. perlomeno, il Pci: andare casa per casa a proporre le proprie idee politiche, ritrovando quel contatto con la gente che manca ormai da troppo tempo; ci si chiede come mai la Lega, foriera di meschinità ideologiche e populistiche, ottenga così ampio consenso e non si capisce che ciò è dovuto al fatto che politici comunali e regionali del partito, se così lo vogliamo definire, vanno a ricercare il dialogo con le persone comuni, vanno ad ascoltare i problemi direttamente alla loro radice, vanno a promettere (anche se poi il mantenere è tutt’altra storia). Ciò che l’opposizione dovrebbe perseguire è proprio questo, poiché pare abbia perso di vista la storia fondante da cui era partita ai tempi delle lotte di classe, storia che ha le sue fondamenta sulla vicinanza ai problemi veri del popolo, quelli più immediati e concreti.

Tuttavia, è doveroso dirlo, il Pd risulta, al momento, il più forte partito di sinistra d’Europa, avendo una base elettorale del 30 %, mentre nel resto dell’Unione schieramenti come quello tedesco arrivano appena al 23 %; oltretutto, essere contro Berlusconi significa anche essere contro un apparato mediatico che non ha eguali in altre nazioni, apparato che martella l’opinione pubblica in maniera incessante, assuefacendola e convincendola che, in fin dei conti, il fatto che il presidente del consiglio sia andato a letto con delle escort è solo chiacchiericcio inutile e poco interessante, se non falso e del tutto inverosimile. Sconfiggere tale sistema è arduo e complesso, soprattutto a causa delle difficoltà del partito e anche a causa di quello che oserei definire tratto dominante del centrosinistra: la capacità di dividersi e litigare nei momenti cruciali della storia ( la scissione di Livorno ne è un esempio lampante).

Ciononostante, spero con convinzione che sia capace di comprendere che, al momento, essere forti e coesi significa molto, essendoci in gioco il destino di un Paese intero, ancora nelle mani del signor B.

domenica 8 novembre 2009

Millenovecentoottantanove



Filip Stefanovic

Si dice che per ammirare davvero la montagna il segreto non stia nel conquistarne la cima, ma allontanarsene per inquadrare l’intero colosso: un’immagine che ben si presta alla storia, dove l’oggettiva lucidità e la capacità di districare e seguire le sue innumerevoli fila sono sempre più lente da carpire dei fatti in sé.

Così ci troviamo oggi, 9 novembre 2009, a guardare con ammirazione e stupore a questo stesso giorno di vent’anni fa, quando una notte bastò a cancellare quella cortina di ferro, battezzata per la prima volta dalle parole di Churchill nel lontano 1946 [*]. Ma cos’è stato, cosa ha rappresentato davvero quel ’89, capace forse solo come il suo omologo di due secoli prima, quello della Rivoluzione francese, di sconvolgere tanto gli assetti europei e poi mondiali? Perché il fatto curioso è che più ci allontaniamo dal nostro monte, più ci sembra che qualcosa non torni, e le impressioni avute a quota ora ci paiono se non erronee, come minimo parziali. La riunificazione delle due Germanie è stata davvero questo, un riavvicinamento, o forse è meglio parlare di Anschluss, di annessione da parte della Germania vincitrice sulla sorella sconfitta? Le immagini che spesso in questi giorni vediamo sui nostri schermi, di quella notte in festa e berlinesi d’ogni sponda che ridono e si abbracciano, non fanno forse il paio con quelle meno famose della primavera 1991, dove le stesse folle di tedeschi dell’est esultanti per l’avvenuta unificazione, di sei mesi precedente, protestavano ora furibonde? Gli operai, perché il libero mercato aveva prodotto 3 milioni di disoccupati, vista l’incapacità concorrenziale dei beni prodotti nella DDR; gli inquilini, perché la privatizzazione delle case aveva portato ad affitti astronomici per le loro economie; le massaie, perché i prezzi liberalizzati erano rincarati in maniera più che esponenziale... Il devasto sociale seguito alla caduta della Repubblica Democratica Tedesca è stato non solo repentino, ma quasi totale. L’istruzione gratuita e d’alto livello, il lavoro sicuro, la pensione certa, la casa, erano elementi dati per scontati, ed anche se il livello retributivo piuttosto basso e la ricchezza delle famiglie assolutamente inavvicinabile ai livelli occidentali, si era certi che non si sarebbe mai sofferta la fame. È molto difficile tracciare un quadro monocromo della realtà tedesco orientale, e il più delle volte si cade in trappole stereotipate, dalle Trabant alla Stasi. E per quanto sia Trabant che Stasi possano essere rappresentative e caratteristiche del socialismo reale, è altrettanto scorretto dimenticare che nella Germania Est hanno vissuto 17 milioni di persone, spesso anche in maniera più che soddisfacente. Bisogna infatti porre molta attenzione nel giudicare la realtà oggettiva e quella soggettiva nella nostra analisi, perché l’errore che più spesso si commette, è quello di traslare la condanna di un regime monopartitico e illiberale allo stile di vita di chi in quel regime è cresciuto ed ha vissuto. La più evidente prova di questo malinteso è sbocciata nell’ultimo decennio, con l’avvento della cosiddetta Ostalgie, termine che identifica la nostalgia per tutto ciò che era a Est, e per la vita dietro al Muro. L’alienazione e il senso di smarrimento che in molti, soprattutto tra i meno giovani, hanno vissuto dal 1989 in poi ha infatti subìto un ulteriore duro colpo per l’incapacità dei tedeschi dell’Ovest (e più in generale di tutto l’Occidente) di separare la condanna di un sistema da quella di un popolo, e della vita di questo stesso popolo: tutto ciò che era ad Ovest si rivelava giusto, tutto quello che proveniva da Est sbagliato, perciò chi aveva vissuto da un lato aveva solo da insegnare, chi veniva dall’altro poteva unicamente, come il figliol prodigo, redimersi, e convertirsi quanto prima al benessere, felice figlio del capitalismo.

Se poniamo però il caso che anche il capitalismo entri in crisi? Quando la disuguaglianza sociale cresce nel tempo, quando i poveri diventano sempre più poveri e la loro stessa condizione una colpa, oltre che la condanna a non avere alcuna chance nella vita? Quando ciò avviene – e sta avvenendo – è normale che in molti si guardino alle spalle, ripensino al loro passato, a quando le differenze tra classi erano molto blande, quando ingegneri e operai andavano in vacanza assieme e la professione non era un ostacolo sociale, i soldi nemmeno, ed il senso comunitario e d’aiuto reciproco più spiccato. Era la DDR, in fondo, il fiore all’occhiello di questo esperimento sociale, economico e politico che va sotto l’appellativo di socialismo reale, l’esempio più riuscito di un sistema alternativo a quello statunitense, che senza un solo dollaro del Piano Marshall era riuscito già entro i primi anni ’60 a rientrare tra i dieci paesi più industrializzati al mondo, perdendo però verso la fine del decennio in questione il passo, soprattutto per quanto riguarda la produzione di beni di largo consumo. Rifugiandosi nei ricordi, risultano incredibilmente meno paradossali, o se non altro poco rilevanti, le incongruenze di allora, il fatto che per ottenere una macchina, l’unica disponibile, passassero in media 15 anni, che non si potesse sceglierne neppure il colore, quello che arrivava arrivava. Oggi invece le case produttrici sono decine, i modelli centinaia, le diverse combinazioni migliaia. Ma se si resta disoccupati, a che cosa si riduce la scelta? Una volta era non solo proibito manifestare, ma si rischiava di ritrovarsi con un fascicolo personale di polizia solo per aver raccontato una barzelletta. Oggi c’è libertà di espressione, ma a cosa serve protestare se nulla cambia? Non fraintendetemi, questo non è un discorso nostalgico, né è proponibile o sol’anche auspicabile il ritorno ad un sistema del genere. È però onesto ammettere che i problemi vissuti dai tedeschi dell’Est non si sono felicemente sciolti come neve al sole, crollato il Muro che ne oscurava i raggi, ma anzi, dopo anni, si sono incancreniti, e in molti a vent’anni da quel 9 novembre si sentono ancora alieni, stranieri di uno stato che non è il loro. Gli alti livelli di disoccupazione, la stagnazione economica, l’emigrazione molto più accentuata che nel resto del paese, intere città fantasma abbandonate dai giovani e trasformate in dormitori per anziani, sono il segno più evidente che qualcosa non ha funzionato, e che i rimpianti di un passato prossimo non sono forse frutto di romantiche nostalgie quanto di esigenze concrete rimaste inappagate.

Cos’ha portato, quindi, il 1989? Le scosse che ha prodotto, fino a dove sono penetrate? Si sono assestate del tutto? Basterebbe solo guardare ai territori dell’Ex-Jugoslavia per dare una risposta negativa. I sorrisi, i sospiri di sollievo, le lacrime di gioia e gli abbracci di quella fatidica notte hanno preceduto di meno di due anni altre immagini, di case martoriate, incendiate, colonne di profughi, corpi martoriati, gonfi, città rase al suolo (Vukovar), altre assediate (Sarajevo), come non se ne vedevano in terra europea dalla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi perciò, quando ripensiamo a quel giorno di venti anni fa, oltre a celebrare la fine dell’incubo della Guerra fredda, teniamo bene a mente che non tutti i suoi nodi sono stati sciolti, che non tutte le domande nate tra quei blocchi di cemento frantumati a picconate hanno trovato risposta, e che pure tra le risposte date, non tutte si sono rivelate esatte. È da questa premessa che deve scaturire la presa di coscienza che c’è ancora molto da fare perché l’Europa sia una, libera e giusta, e che non solo vent’anni sono pochi, ma che forse non ne basteranno altrettanti prima di vedere realizzata quell’idea di casa comune che nel 1989 era parsa, per un momento, un miraggio tanto vicino.



[*] <> http://www.churchill-society-london.org.uk/Fulton.html

Energia Sociale

di Simone Signore

Ershad Ali è un agricoltore del piccolo villaggio di Tikuria, nell’upazila (il livello base dell’amministrazione pubblica bengalese) di Haluaghat, nel nord Bangladesh. Come il 70% dei suoi connazionali, è sprovvisto di elettricità, costretto a soddisfare i suoi bisogni energetici tramite lampade e fornelli a kerosene, tanto inquinanti quanto pericolosi. Come molti nel suo villaggio, però, il signor Ali possiede una grande risorsa: una mini-mandria di sei vacche da pascolo.

Tanto è sufficiente alla Grameen Shakti (letteralmente “Energia del Villaggio”) per garantire ai molti bengalesi come Ershad un prestito di 30.000 taka (poco più di 290 euro, ripagabili ad un interesse annuo del 5,8%) per costruire un impianto a biogas, tecnicamente detto biodigestore: si scava una vasca di ampiezza e profondità variabili, sostenuta attraverso una struttura a reticolo in legno, da cui partono a raggiera dei tubi in plastica; infine, si copre il tutto con un telo impermeabile. Il pozzo viene successivamente riempito a cadenza regolare con un miscuglio di letame ed acqua.

Mohammed Delawar Hossain, ingegnere della Grameen Shakti, spiega: “Quando progettiamo un nuovo impianto, teniamo conto sia delle risorse disponibili che della grandezza del nucleo familiare: ad esempio per una famiglia di 5 o 6 individui basta una cavità di 1,2 metri cubi; se gli individui sono da 8 a 10 optiamo per una buca di 1,4 metri cubi”. “Anche se all’inizio il sistema prevedeva solo l’utilizzo di letame bovino, abbiamo poi scoperto che l’aggiunta di escrementi di pollame aumentava la resa degli impianti. Così il proprietario riceve non solamente gas a sufficienza per cucinare tre volte al giorno, ma riesce persino a guadagnare 2.500 taka rivendendo la quantità di gas in eccesso alla propria comunità” ci dice inoltre il collega Fazley Rabbi.

Grameen Shakti, che ha già stupito il mondo con la sua campagna d’installazione di pannelli solari a basso costo (ad oggi più di 100.000 impianti in tutto il paese), fa parte della famiglia di società Grameen, che partendo dal rivoluzionario successo ottenuto con il sistema del micro-credito (grazie alla lungimiranza di Muhammad Yunus), si è ora espansa in 25 diversi ambiti, tra i quali figurano, oltre all’energia, anche educazione e sanità. Inoltre il processo messo in atto dalla società energetica bengalese potrebbe essere accelerato da un sussidio in arrivo dalla World Bank, che ha promesso 9 dollari per ogni riduzione di una tonnellata di emissioni di CO2. Ciò dovrebbe aiutare la società non-profit a diventare economicamente auto-sufficiente, grazie anche al notevole ritorno che già ottiene proprio dalla vendita di sistemi a pannelli solari, mercato nel quale è tutt’oggi leader indiscussa.

Sono attualmente presenti in Bangladesh più di 30.000 impianti biodigestori, ma l’orizzonte dei più ottimisti è parecchio lontano, stimato intorno ai 4 milioni di potenziali installazioni in tutto il paese. Tikuria è tra i villaggi più virtuosi in questo senso, con ben 50 impianti a biogas, tanto che il più grande finanziatore di progetti ecologici, l’Infra-structure Development Company Ltd (IDCOL) l’ha recentemente decorato della targa di “Biogas Village”, nel rispetto dei propri appositi standard. Ora il 40% della popolazione nel villaggio riceve energia attraverso tale sistema, riducendo i danni agli occhi ed alle vie respiratorie provenienti dalla combustione del kerosene e diminuendo allo stesso tempo il rischio di contrarre malattie infettive.

“È il sogno di tutti gli alchimisti!” esclama lo studente di economia e blogger bengalese Benjamin: “da sempre essi cercano di trasformare il piombo in oro, pur dimostrando una certa ignoranza in materia di politica monetaria (infatti un mondo di solo oro è un mondo in cui scompare il valore dello stesso)! Certo è che sarebbero estremamente sedotti dall’idea di trasformare qualcosa di comune ed inutile in una risorsa preziosa come l'energia”.

Il sistema introdotto da Grameen Shakti è molto apprezzabile anche dal punto di vista sociale, in quanto si basa, come il micro-credito, sulla collaborazione di piccoli-medi gruppi di famiglie, che per superare il limite dei costi decidono di impegnare le risorse finanziarie private per uno scopo e beneficio comune, creando quello che azzardo a definire un social network energetico. Il servizio di manutenzione è inoltre composto interamente da personale femminile appositamente addestrato: si evita così lo stallo per il fatto che la cultura locale non consentirebbe alle donne (che di norma sono le sole presenti al momento dell’intervento) di interagire direttamente con i tecnici maschi, se non alla presenza del marito.

Insomma, quella di Grameen Shakti risulta essere una piccola grande rivoluzione, che potrà aiutare i poveri ad esserlo un po’ meno ed allo stesso tempo rendere il mondo un posto meno inquinato. In tal senso è importante il riconoscimento ottenuto dalla società di Yunus alla recente cerimonia degli Ashden Awards (tenutasi a Londra nell’estate 2008) per lo “Eccezionale Risultato Ottenuto”.


Riferimenti:

The Financial Express - Biogas fires up dreams in rural Bangladesh http://www.thefinancialexpress-bd.com/2009/05/30/68188.html
Benjamin In Bangladesh! – Grameen Shakti http://learnfromthepoor.wordpress.com/2008/06/16/grameen-shakti/
Studyunus.net - Grameen Shakti wins green energy award http://studyunus.wordpress.com/2008/06/22/grameen-shakti-wins-green-energy-award/
PBS Broadcast – Energy e2 http://www.pbs.org/e2/episodes/202_energy_developing_world_trailer.html

venerdì 6 novembre 2009

La Crisi E Oltre: Sono Davvero Troppo Grandi Per Fallire?

Elementi Quantitativi
Vincenzo Scrutinio
“Pestis eram vivus, moriens tua mors ero”
Martin Lutero

In seguito alla pubblicazione da parte della commissione europea delle previsioni per i prossimi due anni, sembra che ormai che l’economia si avvii verso una timida ripresa dopo la crisi in cui era entrata a partire da settembre 2008. Proprio ora che il pericolo di una lunga depressione sembra ormai svanito occorre interrogarsi su quegli elementi che hanno causato la crisi finanziaria in modo da evitare, come Obama ha affermato nel suo discorso a proposito della riforma della regolamentazione della finanza, che torniamo “ai giorni di comportamento irresponsabile ed eccessi incontrollati che sono stati la causa della crisi”(1).

Molti si ricorderanno il fallimento di Lehman Brother, la banca d’investimenti fondata nel 1850, ed ora nota come la vittima più illustre nel mondo della finanza. Il fallimento di questa istituzione ha fatto cadere l’attenzione del pubblico sul tema: “Le banche sono troppo grosse?” e naturalmente sulla politica del “too big to fail”.

Proprio questa politica sarebbe alla base di molti dei problemi alla base della crisi in quanto avrebbe creato, e ancora oggi perpetua, uno dei più grandi casi della storia di quello che gli economisti definiscono azzardo morale. L’obiettivo di una serie di articoli sarebbe quello di analizzare le conseguenze della grandezza delle banche e alcune possibili policy proposte per risolvere tale problema. Prima però dobbiamo capire se sono davvero grandi.

Sono veramente così grandi?
Quando si parla di questo argomento non si incontrano spesso delle definizioni quantitative del problema. Sorge infatti il problema di capire cosa significhi essere grandi nel mondo della finanza e dell’economia in generale.

Un facile confronto può essere fatto tra l’attivo di alcune banche ed il pil dei paesi di appartenenza.

Come si può ben vedere in alcuni paesi in effetti gli attivi di singole istituzioni finanziarie sono addirittura superiori al Pil dello stato stesso. Spicca in particolare RBS (Royal Bank of Scotland) che è ormai per il 70% di proprietà del governo che già pensa di dare una sforbiciata al bilancio di questo colosso. Sembra strano il peso relativamente basso di alcune famigerate banche americane come GS e Bank of America. A tal proposito vanno fatte alcune precisazioni: In primo luogo il Pil degli USA è enormemente maggiore di quello di tutti gli altri stati considerati (esso è pari, da solo, a circa un quinto del PIL mondiale); In secondo luogo, anche se relativamente più piccole alcuni di questi istituti svolgono un ruolo primario all’interno di alcuni mercati internazionali (il loro fallimento avrebbe un peso enorme a causa del cosiddetto rischio sistemico, di cui si parlerà in un altro articolo); in terzo luogo non si considera che molte attività delle banche USA sono, o erano, fuori bilancio e costituiscono quello che Mauro Guerra ha definito “Shadow Banking”(3). Le misurazioni (per giunta molto grezze) possono dunque trarre in inganno. La tabella ha in più alcune pecche come il non considerare i risultati dopo le acquisizioni (non ho aggregato il bilancio di Merril Lynch a quello di BOA, non me ne vogliate…) e spicca un grande assente. La Svizzera non è presente perché il rapporto è semplicemente… troppo grande! Solo Ubs deteneva assets nel 2008 per più di tre volte e mezzo, rapporto che è sceso a poco meno di tre volte nel 2009.

Una volta visto questo potremmo chiederci: ma i governi sono in grado di far fronte al fallimento degli istituti, quantomeno proteggendone i creditori? La cosa sembra abbastanza complessa…
Usando il passivo delle banche come proxy delle perdite su soggetti che non siano azionisti e confrontando questi valori con il General Government Revenue si ottiene il seguente risultato (in cui non si tiene conto della Svizzera con Ubs perché il rapporto è 12).

Come si può ben vedere, pur utilizzando tutto il proprio reddito, i governi non potrebbero mai, singolarmente coprire le perdite sul passivo delle banche, cosa che causerebbe danni gravissimi al sistema finanziario. Naturalmente questo è un caso praticamente solo teorico in quanto è assolutamente impensabile che tutto l’attivo di una banca valga zero di punto in bianco e sarebbe magari più indicativo un confronto con alcuni tipi di attività. Tuttavia bisogna tenere in forte considerazione che la stima delle perdite potenziali di una banca è estremamente difficile da valutare e che, anche lo strumento oggi usato (il VAR o Value At Risk) si è rivelato abbastanza inefficace(3). Inoltre il grafico ci può suggerire l’entità dell’intervento che sarebbe necessario per far fronte anche ad una piccola insolvenza sul debito. Per esempio, se Banco Santander non dovesse essere in grado di ripagare il 10% dei propri debiti, il governo dovrebbe impegnare circa il 20% del suo reddito qualora decidesse di coprire la perdita. Una cifra abbastanza ragguardevole.

Stabilità a rischio
La grandezza stessa di alcun e di queste banche rende impossibile trattarli al pari di molte altre istituzioni del sistema finanziario. Il rischio che esse causerebbero alla stabilità economica degli stessi paesi in cui operano sarebbe enorme in caso di una normale procedura di fallimento. Lord Turner, presidente dell’Authority per la regolamentazione finanziaria, ha recentemente sostenuto che “una parte del settore finanziario è inutile da una prospettiva sociale e sta destabilizzando l’economia britannica”(4). L’effetto nefasto che tali istituzioni potevano avere sulla “vita politica ed economica del paese” era già stato sottolineato quasi un secolo prima dal giurista Louis Brandeis con il principio della “maledizione della grandezza”(5). Non vanno trascurati, oltre agli effetti meramente quantitativi, anche gli aspetti più psicologici del fallimento di questi istituti. Il panico che segue al fallimento di un colosso può portare a fughe disordinate dal mercato con effetti devastanti sia sulle quotazioni che sui bilanci di altre istituzioni più sane.
Viene dunque spontaneo chiedersi quali siano i problemi che la presenza di tali istituti possa creare nel sistema finanziario ma credo che valga la pena dedicarvi un articolo a parte.

(1) Discorso di Barack Obama sulla riforma del settore finanziario, disponibile su http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2009/09/testo-discorso-obama-14092009.shtml?uuid=5408f550-a14f-11de-a8df-36fb8db592ee&DocRulesView=Libero&fromSearch
(2) Mauro Guerra e Fabio Panzera “ Lo Shadow Banking e le quattro isole dell’economia mondiale”. In LIMES supplemento al numero 4/2009.
(3) Varie soluzioni stanno venendo proposte per nuovi indici di rischio, tra questi vale la pena ricordare il CoVar, indice di rischio sitemico, Tobia Adrian e Markus K. Brunnermeier “CoVar” disponibile sul sito di Princeton
http://www.princeton.edu/~markus/research/papers/CoVaR
(4) Intervista a Prospect magazine, frase riportata in “Forget Tobin tax: there is a better way to curb finance”, William Buiter, Financial Times, 1/9/2009.
(5) In NYT, Eric Dash 20/06/09:
http://www.nytimes.com/2009/06/21/weekinreview/21dash.html?_r=3&th&emc=th
(6) Per quanto riguarda i dati:
· Per i dati sulle banche ho usato le relazioni semestrali degli istituti considerati del 2008 e 2009-11-06
· Per i governi ho fatto riferimento al dataset del Worl Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale di ottobre disponibile sul sito
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2009/02/weodata/index.aspx i dati sul Pil sono in dollari a prezzi correnti.


giovedì 5 novembre 2009

Conrad Shumann

Filip Stefanovic

Ci sono alcune istantanee che hanno segnato il mondo, condensando in uno scatto interi capitoli della storia recente; chi non ricorda il miliziano caduto in Spagna, le fotografie del D-Day di Capa, oppure gli americani che issano la bandiera in cima al monte Suribachi?

L’immagine che più di ogni altra viene associata alla Guerra fredda è senz’altro quella di Conrad Schumann.

Schumann, nato il 28 marzo 1942, è stato il primo e forse più famoso evasore della Repubblica Democratica Tedesca: nato nell’odierna Sassonia, arruolato nella Bereitschaftspolizei, le squadre speciali e antisommossa della polizia, sorvegliava la costruzione del muro di Berlino. Era l’agosto del 1961, e sotto gli occhi increduli dei berlinesi i soldati dell’NVA (Nationale Volksarmee, Esercito Nazionalpopolare) piantavano i primi paletti e stendevano il filo spinato, tra le lacrime di chi si vedeva per sempre strappato ai propri cari, parenti, amici…

Forse non fu solo il desiderio di libertà, di una vita normale e serena fuori dal giogo della dittatura comunista, forse fu anche il coraggio dell’incoscienza, di quei 19 anni nascosti sotto l’uniforme e l’elmetto calato sugli occhi, a dare al giovane Conrad il coraggio di prendere la corsa e saltare, quel caldo 15 agosto 1961. Il fotografo Peter Leibing ebbe l’accortezza e la fortuna di riuscire ad immortalare il miracolo, gli stivali che schiacciano il filo spinato, il fucile in spalla, le braccia aperte a spiccare il volo, il volto teso, in apnea, quasi a vedere come andrà a finire, se riprenderà a respirare o se verrà invece colpito alle spalle dai propri compagni.

È una fotografia carica di significato non solo perché dipinge la realtà storica di un’epoca, il dramma interiore della città simbolo della Guerra fredda e dei suoi cittadini, ma perché travalica il momento politico, trasmettendo un messaggio universale e eterno: la ricerca della libertà, la lotta contro ogni forma di limitazione della vita umana, unica e preziosa, che troppe volte, in troppe parti del mondo è stata schiacciata dal volere e dalla forza di pochi. È una fotografia in cui non trionfa l’Ovest sull’Est, ma solo un uomo e la sua volontà di scelta, di decidere della propria vita e del proprio futuro, senza ostacoli o paletti imposti da un potere calato dall’alto.

La fuga riuscì, ma non si può parlare di lieto fine: in esilio da casa, Conrad visse tutta la vita in Baviera, lontano dalla propria famiglia e senza fortuna, lavorando presso l’Audi di Ingolstadt. Per tutta la vita ricevette lettere dai familiari nelle quali lo pregavano di ritornare da loro, scoprendo solo dopo il tracollo della DDR essere state sempre scritte per imposizione della Stasi. Caduto il muro si ritornò a parlare di Conrad e della sua vicenda, ed egli ammise quanto ebbe da soffrire per la sua scelta, di essere stato anche alcolizzato per una decina d’anni: "Solo dal 9 novembre 1989 [caduta del Muro, ndr] mi sono sentito realmente libero"

Nel 1990 poté finalmente tornare a far visita in Sassonia, per scoprire tristemente che in molti non avevano mai perdonato il suo gesto, sia tra gli amici che tra i parenti, e trent’anni dopo non gli rivolgevano nemmeno la parola.

Pose fine alle proprie sofferenze il 20 giugno 1998, con un cappio attorno al collo nel frutteto dietro casa, senza lasciare alcun messaggio. "Sono ancora orgoglioso di quello che ho fatto, non c’era altra possibilità anche se ho corso un grande pericolo e ho tagliato ogni ponte col mio passato: ho perso la famiglia, gli amici, il lavoro, tutto", aveva detto una volta. Ma non sempre la certezza di aver fatto la scelta giusta basta per scacciare i fantasmi del passato.

E in fondo, cosa cambia? Conrad Schumann ha raggiunto l’immortalità molto tempo prima, a 19 anni, ad un metro dal suolo, sopra il filo spinato: ha spiccato il volo come un falco, e non è più atterrato.