venerdì 6 novembre 2009

La Crisi E Oltre: Sono Davvero Troppo Grandi Per Fallire?

Elementi Quantitativi
Vincenzo Scrutinio
“Pestis eram vivus, moriens tua mors ero”
Martin Lutero

In seguito alla pubblicazione da parte della commissione europea delle previsioni per i prossimi due anni, sembra che ormai che l’economia si avvii verso una timida ripresa dopo la crisi in cui era entrata a partire da settembre 2008. Proprio ora che il pericolo di una lunga depressione sembra ormai svanito occorre interrogarsi su quegli elementi che hanno causato la crisi finanziaria in modo da evitare, come Obama ha affermato nel suo discorso a proposito della riforma della regolamentazione della finanza, che torniamo “ai giorni di comportamento irresponsabile ed eccessi incontrollati che sono stati la causa della crisi”(1).

Molti si ricorderanno il fallimento di Lehman Brother, la banca d’investimenti fondata nel 1850, ed ora nota come la vittima più illustre nel mondo della finanza. Il fallimento di questa istituzione ha fatto cadere l’attenzione del pubblico sul tema: “Le banche sono troppo grosse?” e naturalmente sulla politica del “too big to fail”.

Proprio questa politica sarebbe alla base di molti dei problemi alla base della crisi in quanto avrebbe creato, e ancora oggi perpetua, uno dei più grandi casi della storia di quello che gli economisti definiscono azzardo morale. L’obiettivo di una serie di articoli sarebbe quello di analizzare le conseguenze della grandezza delle banche e alcune possibili policy proposte per risolvere tale problema. Prima però dobbiamo capire se sono davvero grandi.

Sono veramente così grandi?
Quando si parla di questo argomento non si incontrano spesso delle definizioni quantitative del problema. Sorge infatti il problema di capire cosa significhi essere grandi nel mondo della finanza e dell’economia in generale.

Un facile confronto può essere fatto tra l’attivo di alcune banche ed il pil dei paesi di appartenenza.

Come si può ben vedere in alcuni paesi in effetti gli attivi di singole istituzioni finanziarie sono addirittura superiori al Pil dello stato stesso. Spicca in particolare RBS (Royal Bank of Scotland) che è ormai per il 70% di proprietà del governo che già pensa di dare una sforbiciata al bilancio di questo colosso. Sembra strano il peso relativamente basso di alcune famigerate banche americane come GS e Bank of America. A tal proposito vanno fatte alcune precisazioni: In primo luogo il Pil degli USA è enormemente maggiore di quello di tutti gli altri stati considerati (esso è pari, da solo, a circa un quinto del PIL mondiale); In secondo luogo, anche se relativamente più piccole alcuni di questi istituti svolgono un ruolo primario all’interno di alcuni mercati internazionali (il loro fallimento avrebbe un peso enorme a causa del cosiddetto rischio sistemico, di cui si parlerà in un altro articolo); in terzo luogo non si considera che molte attività delle banche USA sono, o erano, fuori bilancio e costituiscono quello che Mauro Guerra ha definito “Shadow Banking”(3). Le misurazioni (per giunta molto grezze) possono dunque trarre in inganno. La tabella ha in più alcune pecche come il non considerare i risultati dopo le acquisizioni (non ho aggregato il bilancio di Merril Lynch a quello di BOA, non me ne vogliate…) e spicca un grande assente. La Svizzera non è presente perché il rapporto è semplicemente… troppo grande! Solo Ubs deteneva assets nel 2008 per più di tre volte e mezzo, rapporto che è sceso a poco meno di tre volte nel 2009.

Una volta visto questo potremmo chiederci: ma i governi sono in grado di far fronte al fallimento degli istituti, quantomeno proteggendone i creditori? La cosa sembra abbastanza complessa…
Usando il passivo delle banche come proxy delle perdite su soggetti che non siano azionisti e confrontando questi valori con il General Government Revenue si ottiene il seguente risultato (in cui non si tiene conto della Svizzera con Ubs perché il rapporto è 12).

Come si può ben vedere, pur utilizzando tutto il proprio reddito, i governi non potrebbero mai, singolarmente coprire le perdite sul passivo delle banche, cosa che causerebbe danni gravissimi al sistema finanziario. Naturalmente questo è un caso praticamente solo teorico in quanto è assolutamente impensabile che tutto l’attivo di una banca valga zero di punto in bianco e sarebbe magari più indicativo un confronto con alcuni tipi di attività. Tuttavia bisogna tenere in forte considerazione che la stima delle perdite potenziali di una banca è estremamente difficile da valutare e che, anche lo strumento oggi usato (il VAR o Value At Risk) si è rivelato abbastanza inefficace(3). Inoltre il grafico ci può suggerire l’entità dell’intervento che sarebbe necessario per far fronte anche ad una piccola insolvenza sul debito. Per esempio, se Banco Santander non dovesse essere in grado di ripagare il 10% dei propri debiti, il governo dovrebbe impegnare circa il 20% del suo reddito qualora decidesse di coprire la perdita. Una cifra abbastanza ragguardevole.

Stabilità a rischio
La grandezza stessa di alcun e di queste banche rende impossibile trattarli al pari di molte altre istituzioni del sistema finanziario. Il rischio che esse causerebbero alla stabilità economica degli stessi paesi in cui operano sarebbe enorme in caso di una normale procedura di fallimento. Lord Turner, presidente dell’Authority per la regolamentazione finanziaria, ha recentemente sostenuto che “una parte del settore finanziario è inutile da una prospettiva sociale e sta destabilizzando l’economia britannica”(4). L’effetto nefasto che tali istituzioni potevano avere sulla “vita politica ed economica del paese” era già stato sottolineato quasi un secolo prima dal giurista Louis Brandeis con il principio della “maledizione della grandezza”(5). Non vanno trascurati, oltre agli effetti meramente quantitativi, anche gli aspetti più psicologici del fallimento di questi istituti. Il panico che segue al fallimento di un colosso può portare a fughe disordinate dal mercato con effetti devastanti sia sulle quotazioni che sui bilanci di altre istituzioni più sane.
Viene dunque spontaneo chiedersi quali siano i problemi che la presenza di tali istituti possa creare nel sistema finanziario ma credo che valga la pena dedicarvi un articolo a parte.

(1) Discorso di Barack Obama sulla riforma del settore finanziario, disponibile su http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2009/09/testo-discorso-obama-14092009.shtml?uuid=5408f550-a14f-11de-a8df-36fb8db592ee&DocRulesView=Libero&fromSearch
(2) Mauro Guerra e Fabio Panzera “ Lo Shadow Banking e le quattro isole dell’economia mondiale”. In LIMES supplemento al numero 4/2009.
(3) Varie soluzioni stanno venendo proposte per nuovi indici di rischio, tra questi vale la pena ricordare il CoVar, indice di rischio sitemico, Tobia Adrian e Markus K. Brunnermeier “CoVar” disponibile sul sito di Princeton
http://www.princeton.edu/~markus/research/papers/CoVaR
(4) Intervista a Prospect magazine, frase riportata in “Forget Tobin tax: there is a better way to curb finance”, William Buiter, Financial Times, 1/9/2009.
(5) In NYT, Eric Dash 20/06/09:
http://www.nytimes.com/2009/06/21/weekinreview/21dash.html?_r=3&th&emc=th
(6) Per quanto riguarda i dati:
· Per i dati sulle banche ho usato le relazioni semestrali degli istituti considerati del 2008 e 2009-11-06
· Per i governi ho fatto riferimento al dataset del Worl Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale di ottobre disponibile sul sito
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2009/02/weodata/index.aspx i dati sul Pil sono in dollari a prezzi correnti.


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