martedì 26 maggio 2009

L’Europa, Convitato di Pietra

Gianmario Pisanu

Ogni 5 anni, nell’imminenza del solstizio d’Estate e per pochi giorni appresso, uno spettro, più ingombrante che inquietante, s’aggira per l’Europa.

Nessuno osa nominarlo, men che meno lo si degna di un’occhiata, per timore di qualche malefico anatema o perché, lungi dal prestargli fede, comunque non se ne caverebbe alcunché di buono. Anche stavolta, in definitiva, è tempo di elezioni europee, ma nessuno pare essersene accorto.
Beninteso, le mura tappezzate di manifesti ammiccanti, dove il volto grandeggiante del candidato di turno si erge promettendoci speranze di redenzione, e in cui una scritta in sovrimpressione ci rammenta che in Europa non ci siamo ancora (noi, notoriamente sub sahariani), ma che, lasciandoci dissuadere dalle note flautate del Gran Pifferaio, vi entreremo da protagonisti; ebbene, quelle gigantografie tronfie e imponenti non sono miraggi causati da sovraesposizione al sole implacabile di questi giorni. Ma gli slogan, sempre più frusti e logori, e quindi meno appetibili, malcelano quelli che sono i reali obiettivi della competizione in atto.

Vivendo in un Paese in perpetua campagna elettorale da ormai svariati anni, dove il potere si esercita consultando maniacalmente i sondaggi, le votazioni per il Parlamento europeo costituiscono un’immancabile opportunità per tastare il polso all’elettorato e saggiare i rapporti di forza tra gli schieramenti in campo.

Se il Pd , infatti, proverà ad arginare le velleità egemoniche del Premier, questi, dal canto suo, mira a sferrare il colpo di grazia a un’opposizione agonizzante, battendo il ferro sinché è caldo. Inoltre, mai come in questi casi calza a pennello il vecchio adagio ”dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io”.

Perché si può pure star certi che Lega Nord e Idv non esiteranno a insinuarsi nelle eventuali crepe post elettorali tra le fila dei rispettivi alleati. Simili ad avvoltoi, ronzano attorno alla preda barcollante, attendendo il primo passo falso per avventarvisi e strappare qualche poltrona in più.
E’ la lotta hobbesiana per la sopravvivenza, lo stato di natura per antonomasia. In tutto questo, va da sé, i contenuti languono e l’Europa, formale motivo del contendere, è relegata in un cantuccio. Vuoi perché la cosiddetta “pancia del Paese”, quella che affolla i bar sport, difficilmente si lascia intrigare da certi argomenti , vuoi perché per anni Bruxelles fungeva così bene da caprio espiatorio che nessuno ora osa elencarne le virtù di fronte al proprio elettorato, fatto sta che di cooperazione tra Paesi UE e dei benefici ch’essa potrebbe arrecarci, specie in tempi di crisi, proprio non se ne parla. Piuttosto, si preferisce discorrere delle odalische che contornano l’harem berlusconiano( addirittura il puritano Franceschini reclama a gran voce un’interrogazione parlamentare sulla vicenda!), del futuro di Ancelotti e di amenità varie.

Di conseguenza, da anni i Parlamenti europei , almeno per quanto riguarda la pattuglia italiana, son diventati un ricettacolo di assenteisti, trombati ( vedi Mastella e Cofferati), soubrette, “nani e ballerine”, secondo una fortunata espressione del socialista Formica.

In definitiva, è pur vero che spesso il non voto, la “terza via”, sia una pratica pilatesca e favorisca gli arbitrii di chi può contare sui propri fedeli peones, quelli che ad ogni temperatura e in ogni frangente si recheranno sempre e comunque al seggio. Ma, anziché citare pomposamente l’art. 48 della Costituzione( il voto è un dovere civico ecc.), chi si candida dovrebbe avere il buon senso di spiegare ai cittadini i reali motivi che sottendono alla competizione in atto, senza infingimenti. Sennò, la sensazione di una solenne presa in giro si fa strada sempre più, e il fantasma di un’astensione di massa , esiziale per il processo d’integrazione europea, comincia a prendere corpo.

domenica 24 maggio 2009

Gli Accordi Del Cairo: Come Sprecare Un'Occasione

Vincenzo Scrutinio
con la gentile collaborazione di Giuseppe Lapusata

“Vi è una sola alternativa a trattare…
Ed è trattare ancora ”

Gad Lerner
Conferenza all’Ispi sul tema “Dopo Gaza... Obama e il Medio Oriente”

Una festa a lungo attesa …
In questi giorni si conclude al Cairo la prima parte degli incontri volti a riconciliare Hamas e Fatah. Questo processo si sarebbe dovuto concretizzare nella formazione di un governo di unità nazionale, che comprendesse membri di entrambi gli schieramenti. In tal modo sarebbe stata, da un lato, rafforzata l’immagine di Abu Mazen e di Fatah, profondamente offuscata a seguito della sconfitta elettorale del 2006,e , dall’altro, ne avrebbero potuto trarre giovamento le correnti meno estremiste di Hamas, disposte ad intavolare sul piano istituzionale.

Nulla di tutto questo è avvenuto. Il nuovo governo, infatti, comprende esclusivamente membri di Fatah. Questo ha scatenato la pronta reazione di Hamas, che si affrettato a dichiararlo incostituzionale. Come si può leggere sull’Iran Daily (http://www.iran-daily.com/1388/3405/html/east.htm) il movimento islamico accusa il nuovo gabinetto di non essere stato approvato dal Consiglio Palestinese per la legislazione con conseguente incostituzionalità. A questo punto sembra impensabile che si raggiunga un' effettiva riconciliazione tra le due le due fazioni. Questo mi sembra confermato da un recente sondaggio sul sito internet delle Brigate Ezzedeen al Qassam, braccio armato di Hamas, (http://www.alqassam.ps/english/index.php?action=vrvote), in cui, ad oggi, il 60% dei votanti ritiene che la riconciliazione palestinese avverrà “tra un anno (o più)”.

Che pace senza Hamas?
Pare opportuno, però, fare alcune riflessioni. Perché è così necessaria la partecipazione di Hamas, internazionalmente riconosciuto come movimento integralista e terrorista, per la formazione di un interlocutore istituzionale quale sarebbe, o dovrebbe essere, il governo palestinese?

Si possono fare una serie di considerazioni:

1. Fatah ha il controllo solo dei territori occidentali( la cosiddetta West Bank) mentre è completamente assente da ormai due anni dalla Striscia di Gaza. Non può quindi assicurare il controllo di tutti i territori palestinese.

2. Hamas ha vinto le elezioni del 2006 con una maggioranza schiacciante di 76 seggi su 132. Ammesso che non siano state regolari, il fatto che questo sia avvenuto rimane. Non sembra, quindi, ragionevole escludere dalla rappresentanza una parte del popolo palestinese.

3. L’immagine di Fatah all’interno del mondo mussulmano è fortemente compromessa. La situazione è ulteriormente peggiorata a seguito dell’operazione di dicembre, durante la quale Hamas ha infervorato parte del mondo arabo, mentre Fatah si è limitato a timide rimostranze.

4. Sebbene un articolo del Jerusalem Post abbia affermato che la popolarità di Hamas è in calo, il movimento riesce ancora a godere di un forte ascendente sulla popolazione se non altro per le prospettive di occupazione (la Striscia ha un tasso di disoccupazione prossimo al 65%( http://www.imemc.org/article/60199)).

5. In ultimo, le Brigate e la jihad islamica dipendono largamente da Hamas (come del resto hanno affermato le forze israeliane stesse dicendo che “nessun qassam è lanciato dalla Striscia senza l’assenso di Hamas”). Un coinvolgimento del movimento sul piano istituzionale appare dunque la via più diretta per por fine ai lanci di missili verso Sderot e le altre città.

Conclusioni
In un' intervista sul settimanale l’Espresso (5/3/2009), Khaled Meshaal, leader di Hamas in Siria, ha affermato: “Le divergenze possono essere superate a patto di osservare alcune regole. Occorre che i fratelli di Fatah rispettino i risultati delle urne”. La conciliazione appare, dunque, possibile ed indispensabile alla luce delle considerazioni fatte. Rimane la possibilità di dialogare con una sola delle due fazioni ma questo probabilmente non porterà a una pace duratura.

mercoledì 20 maggio 2009

Disinformazione E Lecita Denuncia: La Parola A Marco Travaglio

Sara Malucchi

E’ accolto da grida che partono da ogni angolo dell’aula magna di via Plana, quanto mai affollata e chiassosa, da mani che frenetiche iniziano a cercare negli zainetti e nelle borse un foglio, anche stropicciato, anche pieno di disegni nervosi tracciati a biro, come quello di una ragazza seduta vicino a me, su cui segnarsi i punti salienti dell’imminente discorso, o denuncia, o monologo che irrefrenabile ma educato uscirà dalla sua bocca quasi dotato di vita di propria e farà arrabbiare, indignare, riflettere, come sempre, come ogni giovedi ad ‘’Annozero”.

Gli applausi partono sincronizzati quando l’uomo che il professor E. Baldini, docente di ‘’Storia del pensiero politico’’ presso la facoltà di Scienze politiche di Torino, definisce ‘’la reliquia che finalmente potete toccare’’si siede, sguardo basso e in lieve imbarazzo per l’accoglienza ricevuta, ma probabilmente attesa, dopo il pienone di quest’inverno al Politecnico.

E ancora una volta Marco Travaglio non delude le aspettative.

Parla con una calma travolgente, ironico ma mai volgare, dice di non volere usare l’inglese ma a volte non può farne a meno per colorire il suo discorso, e si scusa quando descrive come’’yes man’’(‘’signorssì’’, ndr) i ministri dell’attuale Presidente del Consiglio ma anche quelli dell’Opposizione, ‘’ma li avrà scelti Berlusconi, anche loro?”, domanda alla folla di studenti che accaldati e seduti sul pavimento non perdono una parola e annotano, registrano con il cellulare, fanno foto.

La sua non è una polemica qualunquista, questo si avverte, ma ci tiene anche Travaglio stesso a precisarlo. Del resto, non si tratta di un fenomeno mediatico,di un nuovo Beppe Grillo che anzichè convogliare le masse in piazza per i ‘’V-Day’’le fa stare sedute comode ogni giovedi sera davanti al televisore, ad ascoltare il suo incipit da Santoro.

‘’Il qualunquismo non fa bene a nessuno’’, ribadisce l’ospite alla platea di giovanissimi,’’nella politica bisogna crederci, non è utile, è sbagliato rifugiarsi nell’idea che ‘’tutti sono ladri, tutti sono privilegiati’’, ma occorre voler cambiare le cose, e provarci veramente”.

Il suo discorso, sulla disinformazione in Italia, non è infatti volto al nichilismo, alla sfiducia nei giornali e nelle televisioni, ma vuole semplicemente far aprire gli occhi delle persone ‘’non addette al settore’’ sull’importanza di scegliere, di selezionare le notizie, di informarsi e cercare in prima persona la verità, senza accontentarsi di sentirsela raccontare da chiunque sia in grado di scrivere su un quotidiano o di parlare al telegiornale. Perchè non tutto è sempre limpido e disinteressato. Anzi.

E per fare un esempio Marco Travaglio cita una famosa azienda edile, che aveva ricevuto l’appalto per costruire alcuni edifici in Abruzzo, poi crollati a causa della sabbia spacciata per cemento; tutti i giornali hanno gridato allo scandalo, si sono protetti dietro un coro di titoloni sbattuti in prima pagina, “VERGOGNA! risparmiare sulla vita!”, “Vergogna!! case fatte di sabbia!!”.

Vergogna. Già. Ma a chi? All’azienda edile o ai quotidiani, che non hanno fatto alcun nome, proprio perchè finanziati, in parte, dall’azienda stessa?

Ma del resto a queste cose si preferisce non pensare, tanto Ghedini, e molti altri, ironizzano sul fatto che il nostro Paese sia finito agli ultimi posti nella classifica stilata dalla Freedom House sulla libertà di informazione, perchè in fondo cosa sarà mai questa Freedom House che si permette di giudicarci?

Solo un ente non governativo fondato dalla Signora Roosvelt. Ma non si preoccupi, avvocato Ghedini, la maggior parte degli Italiani questo non lo sa.

Riflessioni Sull'Università

Alessio Mazzucco

Si parla nuovamente di università e inevitabilmente scoppia la polemica. Supportata, questa volta, dalla guerriglia urbana. Perché queste sono le notizie che giungono da Torino: cariche, bastonate, sassi, uova che volano, scontri.

Si parla di Università e i giovani insorgono. O, almeno, una parte dei giovani. Non capisco. Quando l’Università è un argomento che non tira e non compare sui giornali nessuno ne parla; al primo accenno scoppia il putiferio, le grida e le urla si moltiplicano. E’ un argomento caldo. Anzi, rovente. Sull’Università si basa la “scommessa” sul nostro futuro, su noi stessi. Cosa intendo? Ricercatori, studiosi, professionisti, dirigenti, professori, ecc.. Senza di loro, senza di noi studenti, manca una parte notevole della forza propulsiva di un Paese. Eppure, da noi, questo luogo di riscatto e formazione è minato in più punti alle fondamenta.

Durante la conferenza dei Rettori a Torino, riporta il Corriere della Sera, l’idea che spicca è la considerazione che si ha del sistema universitario come “fattore strategico” e del tentativo di ricercare soluzioni ai gravi problemi e debolezze che l’attraversano. Come rispondono i giovani? Urlano? No: troppo facile confondere le frange estremiste con gli studenti che nell’Università credono, sperano, s’impegnano. No: noi stiamo in silenzio. E’ questo il problema, è questa la grave situazione dell’Università: le idee ci sono, molti ne hanno e magari tra loro ne parlano, ma nessuna voce si leva. Si discute, magari a gruppi, ma nessuna proposta arriva in alto.

L’intenzione di una riforma dal basso è meravigliosa. Spingere gli studenti a discutere, farne la propulsione, la fucina di idee nuove ed innovative sarebbe il punto di svolta. Problema: chi urla e ha la voce grossa copre gli altri. E molto spesso chi urla e ha la voce grossa confonde la lotta per la conservazione delle briciole come la rivoluzione, la guerriglia urbana come il tramite più efficace di discussione. Gli obiettivi si perdono, si confondono, scompaiono tra i vortici dell’ideologia e dell’ignoranza. Parole vuote, frasi miopi coprono idee geniali, innovative, tentativi di sfuggire agli schemi di sempre. Propongo un esempio: ricordiamo tutti i fatti di Ottobre-Novembre 2008? Sembrava un nuovo ’68 con tanto di manifestazioni e occupazioni continue. Senza entrare nel merito della forma e dei risultati della protesta, ricordo contro cosa si protestava: la riforma Gelmini. Come si può sperare di portare cambiamento quando si confondono gli obiettivi della protesta? Qualcuno alzò la voce quando i tagli (quelli veri) si inserirono silenziosamente nella Finanziaria votata in estate di quell’anno? No. Ma quando apparve la legge 133 il cui articolo della ministra dell’Istruzione prevedeva la possibilità di trasformazione degli atenei pubblici in fondazioni private, scoppiò la rivolta. Rivolta che, per quanto ricordo, non portò proposte o nuove idee. Non entro oltre nel commento delle vicende: né la Finanziaria né la Gelmini mi convinsero che l’attuale Governo stesse lavorando per migliorare l’Università pubblica. E oggi non son certo di avviso differente.

L’idea è questa: quali modi, quali mezzi, quali strumenti per migliorare l’Università? Per incrementare efficienza, meritocrazia, ricerca e formazione, come agire? Io parlo, ad esempio, di Università a numero chiuso per tutte le facoltà fino ad un tetto massimo di assorbimento da parte dell’Ateneo: aumenta l’efficienza (aule meno affollate, burocrazia più snella) e si crea un sistema meritocratico migliore. Ma è solo una proposta, una delle tante che si possono discutere. Io ne posso immaginare qualcuna, tutti noi ne possiamo portare altre, ma qual è, alla fine, la voce che di noi si sente? La guerriglia urbana? Le urla? Le grida confusionarie di ideologie o preconcetti immutati da troppo tempo?

Possiamo permetterci di più, volare più in alto con il pensiero, fare proposte più audaci, creare un dibattito migliore tra tutti noi. O, almeno, questa è la mia idea.

lunedì 18 maggio 2009

Una Crisi Dalle Radici Profonde

Vincenzo Scrutinio

“Tutte le famiglie felici si somigliano;
ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo“
Lev Tolstoy, Anna Karenina

NOTIZIE DAL FRONTE
Da un po’ di tempo a questa parte pare che la crisi finanziaria che minacciava di portare al collasso l’economia mondiale abbia smesso di mordere. Sebbene sul fronte macro i dati non segnalino ancora una vera ripresa ed anzi dipingano a fosche tinte la situazione (proprio alcuni giorni fa i dati del primo trimestre segnalavano una caduta del 5,9% su base annuale per il Pil italiano), i mercati finanziari sembrano condividere le opinioni dei più ottimisti tra ministri e banche centrali, facendo segnare forti rialzi degli indici azionari. Tale ripresa sembra far perdere alla crisi attuale molte delle sue caratteristiche più rilevanti inquadrandola, probabilmente, semplicemente come la sesta delle cosiddette “Big Five” (Spagna 1977, Norvegia 1987, Svezia e Finlandia 1991 e Giappone 1992).

Un elemento che tuttavia non può passare in secondo piano, ed andrebbe maggiormente sottolineato, è che stavolta la crisi ha toccato in modo profondo uno dei nodi nevralgici dell’economia mondiale ovvero gli Stati Uniti. Con un Pil di circa 14.000 miliardi di dollari (circa un quarto del Pil mondiale) ed il sistema finanziario più sviluppato al mondo qualsiasi rallentamento dell’economia americana influenza in modo consistente l’intera economia mondiale. Se in Canada si dice “quando gli USA starnutiscono, il Canada si prende l’influenza”, questa volta nell’allegra famigliola della finanza globale ce la siamo presa tutti.
E sembra che non sarà una convalescenza breve. Una delle condizioni imprescindibili per una effettiva ripresa globale è la stabilizzazione dell’economia americana che, tuttavia, si trova in condizioni molto diverse dall’ultima sua crisi immobiliare (S&L 1988)

DEBOLEZZE STRUTTURALI
A partire dalla presidenza Clinton e dall’implementazione finanziaria del principio “una casa per ogni americano” il mercato immobiliare è cresciuto a tassi impressionanti con un incremento del valore delle abitazioni di circa il 200% in dieci anni (1996-2006). Questo ha profondamente influenzato le basi del sistema economico americano in due modi:
1. In primo luogo la crescita dei prezzi delle abitazioni ha distolto risorse da alcune forme di investimento, spostandole sul ben più profittevole mercato immobiliare. Come si può notare dal grafico 1 la quota dell’investimento immobiliare su tutti gli investimenti privati ha raggiunto livelli senza precedenti nella storia americana del dopoguerra (non so prima in quanto le serie storiche partono dal ’29 ed escludendo il periodo del Baby Boom, cioè gli anni ‘50).
2. In secondo luogo, è vero che la possibilità di fornire la propria abitazione è un mezzo potentissimo per permettere lo sviluppo economico (come ricordano Zingales e Rajan in “Salvare il capitalismo dai capitalisti”), ma è anche vero che se questo va ad aumentare considerevolmente la capacità di consumo delle famiglie, in un economia avanzata, si possono creare una serie di distorsioni potenzialmente pericolose. Come si può vedere dal grafico 2 la correlazione tra investimenti residenziali e la crescita del peso del consumo sul Pil complessivo sono strettamente legati (questo perché gli americani hanno il vizietto/virtù di dare la loro casa in garanzia con una certa disinvoltura, e, se il suo valore cresce, naturalmente aumentano i prestiti che possono ottenere e così via…). Questo fenomeno ha rinforzato un trend già presente portando i consumi a rappresentare circa il 70% del Pil USA (fig 3). E questo senza contare che tali prestiti influenzati anche da notevoli flussi monetari dall’estero (ma di questo si parlerà un’altra volta).

ALCUNE CONCLUSIONI PROVVISORIE
Facendo quindi un primo bilancio si può dire, come ha detto il Presidente del Banco Popolare di Milano, Roberto Mazzotta, in un suo recente intervento all’incontro di “Economia e società aperta” (14/05/09) e l’ex ministro Tommaso Padoa Schioppa (in quello del 7/05/09) , questa crisi “ ha radici profonde nel sistema di crescita statunitense” che ha caratterizzato almeno l’ ultimo decennio. Ritengo (nella mia grande ignoranza) sia abbastanza probabile che questi elementi influenzeranno quantomeno i tempi della ripresa se non la stessa capacità di crescita di medio-lungo periodo degli USA. E con loro di parte consistente dell’economia globale. Molti anni fa Schumpeter, parlando della Grande Depressione, chiedeva ai politici di non incoraggiare la ripresa prima che fossero risolti i problemi strutturali sottostanti, chissà che stavolta questo non ci venga imposto dalle circostanze.







venerdì 15 maggio 2009

PIERINO, DARIO E IL LUPO CHE NON PERDE IL VIZIO

GianMario Pisanu

Gridando spesso “al lupo al lupo”,come c’insegna la saggezza popolare, si finisce per sbraitare al vento. A questa dura nemesi,che punisce inflessibilmente chi si compiace di spararla grossa in virtù del principio “verba volant”,non sfuggono i politici nostrani,spesso inclini a fosche visioni millenaristiche,specie se a occupare gli scranni che contano sono i rivali.
Da ultimo, è toccato a Dario Franceschini sperimentare sulla propria pelle l’effetto boomerang di quest’infida legge del contrappasso. In una recente intervista al Corriere della sera,il neo-segretario ad interim del Pd,sfibrato dalle lotte intestine e frustrato da sinistri sondaggi premonitori,ha lanciato un appello accorato all’elettorato di ambo i poli,affinchè si mobilitino a votare Pd alle prossime elezioni europee. Se il consenso quasi ecumenico al premier(75% l’indice di gradimento) non venisse scalfito dalla prossima tornata elettorale ma anzi rinsaldato, il rischio,a detta di Franceschini, sarebbe quello di ritrovarsi l’indomani in una Repubblica delle banane(il caso citato a paragone è quello del Turkmenistan). Con un leader maximo,Silvio,pronto a calare l’asso pigliatutto, senza ritegno della sparuta mandria di oppositori che rimarrebbe,e intenzionato a irreggimentare l’opinione pubblica.
Queste dichiarazioni,che in altri tempi avrebbero scatenato un caso politico,son state accolte da un assordante silenzio, quindi cadute nel dimenticatoio tra l’indifferenza generale. Chi aveva interesse ad avvalorarne le tesi,si è guardato bene dal farlo; gli avversari,dal canto loro,hanno metabolizzato la sortita con l’atteggiamento compassionevole di chi s’offre di accompagnare a letto il bambino capriccioso che frigna a tavola.
A determinare questo vistoso insuccesso è stata l’ormai palese insofferenza della gente verso qualsiasi forma di dialettica. Anni e anni di scontro frontale,condito da reciproche contumelie e accuse di ogni risma, hanno reso la scena politica italiana sempre più simile a un’enorme gazzarra da saloon,dove i duellanti si sfidano per qualche poltrona in più. Se Berlusconi paventava l’avvento di un governo di centro-sinistra, che avrebbe portato “morte,terrore e distruzione”, Di Pietro e compagni non son stati da meno, dipingendo a più riprese l’avversario quale moderna incarnazione dell’AntiCristo.
Tutto ciò è apparso a lungo andare come un noioso gioco delle parti, mero esercizio retorico di diffamazione del dirimpettaio , immunizzando gli elettori da ogni sorta di iperbole ben congegnata. Sennonché, oggi c’è un rifiuto aprioristico di ogni genere di dibattito,seppure costruttivo. Alla demagogia propria di chi starnazza a raffica contro tutto e tutti, è subentrata l’iconografia dell’uomo pragmatico, quello che non deve chiedere mai bensì fare, e subito. Poi, che ciò avvenga o meno pare non essere di grande interesse, l’importante è mostrarsi al di sopra di chi si perde in ciarle.
Il rischio, quanto mai attuale, è quello di un acritico quanto diffuso allineamento alla Moda, al pensiero dominante. Se si rifiuta il dibattito, inteso quale vivace confronto d’idee e non come sterile cagnara da osteria, ne esce impoverita la democrazia, che diviene di stampo plebiscitario, fondata cioè non su robuste radici ma sull’acclamazione della massa, per natura estremamente volubile.
L’appello di Franceschini apparirebbe perciò condivisibile nella sostanza, se non fosse macchiato dall’ennesimo paragone improvvido(noi come l’Italia del ventennio, noi come il Turkmenistan ecc.) che relega il suo discorso al livello delle tante boutades cui ormai siamo abituati e gli fa perdere credibilità.
Citando Hegel, è solo superando l’Antitesi fine a se stessa e proponendo una Sintesi costruttiva con idee forti e dirompenti che si smuoveranno le coscienze dalla velenosa assuefazione a finti idoli e valori degeneri.
Altrimenti, come Franceschini l’altro giorno,s’indossano ineluttabilmente i panni della povera Cassandra, schernita per le sue inverosimili quanto infallibili profezie, puntualmente inascoltate.

sabato 9 maggio 2009

Brevi Riflessioni Sul Significato Di Politica

Alessio Mazzucco

Che cos’è la politica? Sembra la classica domanda da un milione di dollari. In effetti lo è: come definire un fenomeno tanto complesso, così ricco di sfaccettature e aspetti diversi? Credo sia impossibile. Ma provare a darne una spiegazione, un’opinione personale, lo stesso porsi la domanda, credo sia normale, fisiologico quasi. Quindi cos’è questa politica?

Anzitutto vorrei lasciarmi alle spalle l’accezione negativa del termine o, meglio, quella che io considero l’accezione negativa del termine. Dire politica non significa dire giochi di potere, compromessi, promesse mancate, campagne elettorali e seggi, scontri, parole dette e non dette, linguaggi assurdi e incomprensibili. In parte, in realtà, può voler significare anche questo, ma non è mia intenzione sottolineare, al momento, questo aspetto.

Non definirò ora cosa significa per me politica in senso storico o filosofico. Cercherò di darne una visione compatibile con la vita di tutti giorni.

La politica è niente più di uno strumento per regolare e oliare gli ingranaggi della macchina sociale. La politica rientra in ogni aspetto della vita sotto forma di idee, opinioni, discussioni e iniziative; ed è molto triste che si veda la politica come attività partitica. Io cercherei di definirla più come “coscienza sociale”. Non è un termine politichese: lo giuro. E non significa “coscienza di classe” né ha qualsiasi altra accezione strana. Il significato che ne do è molto più semplice: “coscienza sociale” indica la volontà di miglioramento, di crescita, di perfezionamento che la società fa di se stessa. Sentirsi parte di una società, di un gruppo sociale(so che sto ripetendo di continuo il termine “società”, ma è cardine del mio pensiero), di una comunità significa individuarne i problemi, crearsi delle opinioni, discuterne con chi ne ha diverse e dare vita a iniziative volte a risolverli. “Coscienza sociale” significa politica dal basso, dalla società, nella società; significa impegnarsi per qualcosa di nuovo, qualcosa migliore.

Io credo sia questa la politica. E credo che, al giorno d’oggi, nel nostro Paese, sia molto arduo darne una lettura positiva tanta è la disillusione, il cinismo, la delusione. E non è certo colpa nostra o, almeno, lo è solo in parte: ci abituano a vedere, a pensare, una politica a tratti squallida, a tratti vuota, finalizzata a se stessa o agli egoismi dei singoli. Molto spesso li lasciamo fare, ancor più spesso cerchiamo d’inserirci negli stessi meccanismi confidando siano gli unici che ci permettano di esprimerci.

Altre vie ci sono: creare dibattito, discussione, dar vita a idee ed opinioni. E’ verso la “coscienza sociale” che il nostro impegno deve andare per riscattare il termine “politica” dal vuoto in cui l’abbiamo lasciato cadere. O, almeno, questa è la mia idea.

giovedì 7 maggio 2009

Il Giorno Dopo: Testimonianza Diretta Da L'Aquila

Stefania Betti

Gli unici rumori che sentivamo, erano le ruote del camion che schiacciavano i sassi e lo scricchiolare del rimorchio, l’unica luce che vedevamo, era quella fioca e triste della luna, che illuminava quel poco che rimaneva del paesino di Paganica, e di tutti i paesi incontrati sul nostro cammino.

Era martedì 7 Aprile, il giorno dopo il tremendo terremoto che ha distrutto L’Aquila e la sua provincia, io ero su uno dei primi camion partiti da Rieti per portare aiuti alimentari e vestiario per le prime tendopoli che avrebbero accolto gli sfollati: ero partita per uccidere il senso di impotenza che si era insinuato dentro di me dalla mattina del giorno prima, per aiutare quelle persone che da un momento all’altro si erano viste crollare sulla testa la propria casa e i propri sogni, ma in tutta la mia vita, mai avrei pensato di vedere una tale distruzione, di palpare una tale tristezza nell’aria.

Scrivo a quasi un mese di distanza da quel giorno, e lo faccio per la prima volta, quando alla rabbia e allo stupore si è sostituita la rassegnazione, e la speranza.

Sono stati giorni orribili: la paura per tutti gli amici di cui non avevo notizie, la rabbia per la mia assoluta incapacità di comprendere, lo sgomento di fronte a tanta furia della natura.. e anche di fronte a tutte quelle interviste televisive incentrate sul dolore delle persone per fare audience.

Io non so se questa tragedia si sarebbe potuta evitare, se ci saremmo dovuti fidare delle previsioni di Giuliani, se si sarebbero dovute prendere più misure preventive.

Quello che credo, è che se esistono delle norme per la costruzione di edifici in territori sismici, andrebbero rispettate PRIMA che le persone muoiano sotto le macerie. Se tutte le norme fossero state rispettate all’atto della prima costruzione, se le persone si sentissero sicure nelle proprie case, i terremoti non spaventerebbero nessuno, e nessun geofisico si sentirebbe il dovere trovare un modo di prevedere terremoti catastrofici.

A ragion del vero, devo dire che, effettivamente, le norme antisismiche servono soltanto a limitare i danni: il terremoto costringe i materiali di costruzione, che rendono il loro massimo lavorando “a compressione” ovvero ricevendo contemporaneamente una spinta dall’alto e una dal basso, a lavorare “in trazione”, ovvero annullando la spinta che ricevono dal terreno, e l’intera struttura potrebbe comunque subire dei danni.
Questa però non è una giustificazione: nel caso specifico de L’Aquila, anche le norme basilari sono state violate, e così è per più della metà delle costruzioni Italiane.

Mi sorge una domanda: in luoghi notoriamente sismici come Giappone o California, sono stati inventati metodi di costruzione più nuovi e adatti al particolare terreno, e nelle progettazioni sono coinvolti anche ingegneri italiani… perché tali metodi non sono applicati ovunque? Perché, se, constatando che edifici più antichi costruiti con pietra e legno resistono meglio ai sismi, non si cerca di emularli?

Purtroppo non sono un tecnico del settore, e non conosco le implicazioni che ci sono dietro, ma sono fermamente convinta che la salute e la vita delle persone non abbiano prezzo, e vadano tutelate prima di tutto.

Non ci avrei mai creduto se non l’avessi visto con i miei occhi: sembrava che la città fosse stata bombardata: quello che hanno mostrato i telegiornali non è niente rispetto a quello che realmente ci si trova davanti. Per la polvere, sembrava ci fosse la nebbia, gli edifici erano accartocciati come mucchi di massi caduti dopo una frana.

So bene che niente e nessuno potrà mai ridarci tutto quello che abbiamo perso, e forse è anche ora di smettere di fare polemiche e iniziare un serio lavoro di ricostruzione e supporto per aiutare gli Abruzzesi a riprendere le loro vite normali, ma forse nessuno di loro (e di noi) troverà pace, finche non vedrà che la giustizia avrà fatto il suo corso… e potrà ritrovare quella fiducia che ha perso.

Il Rosso E Il Nero (a tinte sbiadite)

Gianmario Pisanu

Nel nostro Bel Paese, patria di guelfi e ghibellini, per più di mezzo secolo due opposti schieramenti han combattuto battaglie fratricide aventi come obiettivo il predominio sociale e culturale.

Da una parte,quale ultimo baluardo del mos maiorum e dei rigidi precetti aviti, la falange conservatrice, dall’opposta fazione spesso tacciata di ottusità, bigotteria, e ritenuta capace di ordire sinistre trame per la conquista golpistica del Paese( magari con l’aiuto della CIA o del Mossad). Dall’altro lato della barricata, invece, le sacre vestali della Rivoluzione, i “comunisti”, inizialmente sospettati delle più turpi nefandezze( prediligevano la carne umana, meglio se tenera e non coriacea), quindi bollati dai benpensanti quali anarcoidi, mangiapreti, spregiatori della Patria e chi più ne ha più ne metta.

Questo clima da “dagli all’untore”, figlio di vicende tribolate e di una storia nazionale mai suggellata da un comune sentire, ha sviluppato col tempo un maccartismo in salsa italiana.
Etichettare una persona come reazionaria o bolscevica, dando per scontato che dai limiti di quell’angusto recinto ideologico non si potesse uscire, è divenuto lo sport nazionale più diffuso. Orde di studiosi si arrovellavano su cosa fosse di destra e cosa di sinistra, per offrire ai propri proseliti un sicuro discrimine su cosa fosse Bene e cosa Male.

Così,per dirla alla Gaber, che sprezzantemente schernì questo schizofrenico manicheismo intellettuale, se farsi il bagno era di destra,la doccia era certamente di sinistra(meno chic,elementare);le patate, ortaggio graditissimo ai più ma dal vago retrogusto contadinesco, erano proletarie anch’esse,mentre spappolate nel puré assumevano sembianze destrorse.

Come ogni pensiero dominante, anche questa visione dicotomica ha generato un conformismo al quale spesso vien difficile sottrarsi. Sicché, ogni qual volta si prova a esprimere un’idea fuori dal coro, si corre il rischio di essere accusati di apostasia o di disinteresse, d’Alto Tradimento alla Causa o d’ignavia(a chi non è mai capitato ?)

Ma lo slogan”Destra-Sinistra”, in quanto tale, semplifica enormemente la realtà italiana,senza aiutarci a comprenderla sino in fondo. Se ancora riscuote un particolare successo tra le élites culturali e nelle curve degli stadi, ha in realtà segnato il passo con quella società che tentava di descrivere e rappresentare , mano a mano che questa si evolveva. In particolare, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta si è assistito al Crepuscolo degli Idoli, presto soppiantati da altri nuovi di zecca. Sicché, se prima ci s’immolava all’Ideologia e tutto veniva accettato in nome di essa, oggi impera una mentalità utilitaristica, che tende a riconsiderare tutto senza le lenti deformanti della dottrina e in virtù di principi quasi aziendalistici. Beninteso, con tutti i contro che ciò inevitabilmente comporta. Quali, ad esempio, una nuova tirannia della maggioranza, assuefatta al consumismo e al relativismo, il cinismo e la disillusione dilaganti, la mediatizzazione della politica(vedi velinismo et similia).

Tuttavia liberarsi dai vecchi retaggi, senza l’ossessione parricida della modernità a tutti i costi, è doveroso, perché rimanendo ancorati a schemi logori e ammuffiti si travisa completamente il mondo, concependolo come secondo i dettami del Dogma dovrebbe essere, senza capirne la sua effettiva quotidianità. Un errore tanto più imperdonabile in quanto, dicendola alla Orwell, chi controlla il presente controlla il futuro, e se non ne teniamo ben salde le redini rischiamo di essere marionette agitate dai pupari di turno.